Come abbiamo potuto pensare l’eternità e l’infinito, se ci sono inaccessibili?
Si tratta di un’antropomorfizzazione dell’assoluto o di un’intuizione reale di qualcosa che ci supera?
Secondo la prima ipotesi, proiettiamo oltre l’umano categorie nate nell’umano, espandendo e mitizzando determinati vissuti personali. Così, l’esperienza soggettiva della durata genera l’idea astratta dell’“eternità”, la paura del limite dà forma all’“infinito”, il bisogno di senso alimenta il concetto di “assoluto”.
Secondo l’altra ipotesi, invece, abbiamo colto – per lampi, per brevi aperture – livelli dell’essere che eccedono la nostra misura, ma non per questo ci sono del tutto preclusi. Si tratta di esperienze liminali, intuizioni intellettuali pure (come avviene in certa matematica), esperienze mistiche, o anche visioni poetiche: come quando il poeta percepisce il vento dell’infinito che soffia dove vuole, ne ode il suono, ma non sa da dove viene né dove va.
Non escludo che sia più corretta la prima ipotesi. Ma la seconda, a volte, fa vivere meglio.