Due modi umani oltre il tempio: l’ateo esistenzialista e lo spinoziano. Fratelli nel rifiuto di un Padre, finalmente orfani di tribunali celesti, ma diversi nel portare questa orfanezza.
L’esistenzialista strappa senso dall’assurdo, come se l’universo fosse un fondale cieco da bucare col proprio urlo. Si dichiara nauseato dal non-senso, ma a ben vedere occorre uno stomaco ben piazzato al centro del palco per produrre nausea: chi proclama l’irragionevolezza del mondo rivela di custodire in sé un metro di ragione con cui lo misura.
Lo spinoziano non insorge contro l’assenza di uno scopo, perché non invoca uno scopo. Non c’è assurdo dove tutto è necessario. Non c’è silenzio dove ogni filo di causa risuona. L’io non divora il mondo, si scioglie nella trama. E la trama non è materia muta — è natura, infinita sostanza che genera se stessa, forma e moto, mente e corpo. La materia è solo un volto fra molti: la natura è il fiume che non smette di scorrere.
L’esistenzialista resta un antropocentrico in rivolta: scava la sua tana nel vuoto per far brillare un ego stoico, tragico, ancora centrale. Lo spinoziano toglie il centro, lo distende ovunque. Nessuno dei due torna al tempio, ma uno continua a erigere altari al proprio tormento, l’altro siede quieto.