“Destino” dice tanto un cieco funzionamento quanto una regia nascosta: un’ambiguità funzionale a strategie consolatorie. La provvidenza è legata a un’intenzionalità proiettata dal soggetto umano sul cosmo: l’universo — o Dio — starebbe tramando in mio favore, una sorta di messinscena metafisica a misura d’uomo.
La necessità, invece — ciò che è come è, indifferente a me, perché non può essere altrimenti — dissolve questa intenzionalità in un ordine impersonale e inesorabile. L’antropocentrismo si scioglie in un ontologismo puro.
Eppure, se guardiamo intorno, fra provvidenza e necessità non c’è partita: vince la superstizione. Più dolce l’illusione di un occhio che veglia, di un disegno cucito sul desiderio di immortalità.
Ma a chi non teme di vedersi fuori dal centro, a chi avverte il retropensiero che l’ordine provvidenziale è un mito di second’ordine, la necessità appare più pacificante di ogni disegno benevolo: nessuna messinscena antropocentrica, nessuna fiction sospetta. Ciò che è, è come deve essere, indifferente a noi — e perciò più vero. La freddezza del reale è verità più accogliente di una menzogna calda. Ciò che consola è la corrispondenza tra ciò che vediamo fuori e ciò che intuiamo dentro: l’ordine impersonale è speculare alla nostra capacità di pensarlo.
La mente, nel suo sforzo di vedere il tutto sub specie aeternitatis, si riconosce come espressione di quell’ordine. E in questa coincidenza sparisce la scissione tra soggetto e mondo, tra “me” e “ciò che accade”: è giusto così, va bene così. In altre parole: la provvidenza rassicura l’io — la necessità dissolve l’io, e questa dissoluzione, se accettata, toglie all’io la radice stessa dell’angoscia. Conoscere questo ordine, impersonale e incorruttibile, è già aderirvi, sciogliendo l’io dalla sua superstizione segreta. Allora la mente, liberata da un destino cucito su misura, respira nell’aria vasta del possibile: un animale fra gli animali, una forma fra le forme. Nulla di più, nulla di meno.