Tipi umani
Due modi umani oltre il tempio: l’ateo esistenzialista e lo spinoziano. Fratelli nel rifiuto di un Padre, finalmente orfani di tribunali celesti, ma diversi nel portare questa orfanezza.
L’esistenzialista strappa senso dall’assurdo, come se l’universo fosse un fondale cieco da bucare col proprio urlo. Si dichiara nauseato dal non-senso, ma a ben vedere occorre uno stomaco ben piazzato al centro del palco per produrre nausea: chi proclama l’irragionevolezza del mondo rivela di custodire in sé un metro di ragione con cui lo misura.
Lo spinoziano non insorge contro l’assenza di uno scopo, perché non invoca uno scopo. Non c’è assurdo dove tutto è necessario. Non c’è silenzio dove ogni filo di causa risuona. L’io non divora il mondo, si scioglie nella trama. E la trama non è materia muta — è natura, infinita sostanza che genera se stessa, forma e moto, mente e corpo. La materia è solo un volto fra molti: la natura è il fiume che non smette di scorrere.
L’esistenzialista resta un antropocentrico in rivolta: scava la sua tana nel vuoto per far brillare un ego stoico, tragico, ancora centrale. Lo spinoziano toglie il centro, lo distende ovunque. Nessuno dei due torna al tempio, ma uno continua a erigere altari al proprio tormento, l’altro siede quieto.
L’Inesorabile
Si cita spesso, quasi con leggerezza, il celebre Deus sive Natura di Spinoza, per poi aggiungere come un riflesso condizionato: “Panteismo”. Lo si ripete come fosse un motto innocuo di filosofia da salotto, senza sentire quanto sia, per noi Sapiens, un pensiero inaudito.
Specialmente due le idee intrinseche al Deus sive Natura, che restano quasi insostenibili: l’ontologia e la libertà.
Ontologia
Per Spinoza, un fungo e un essere umano esistono con la stessa necessità: sono modi della stessa sostanza, nessuno “vale” più dell’altro in senso assoluto. Certo, un uomo ha maggiore potenza: pensa, agisce, trasforma l’ambiente. Ma questa superiorità è solo relativa alla sua capacità di perseverare nel proprio essere (conatus). Dal punto di vista umano, il fungo è nutrimento o ostacolo; dal punto di vista del fungo, l’uomo può essere irrilevante o distruttivo. E dal punto di vista di Dio, che è la natura stessa, tutto accade con perfetta necessità: il fungo che decompone, l’uomo che costruisce o devasta, la guerra, la pace.
Libertà
Spinoza nega il libero arbitrio come facoltà di decidere indipendentemente dalle cause. L’uomo non è un regno dentro un regno. Tutto ciò che pensiamo e facciamo è effetto di cause naturali. Possiamo diventare più razionali e dunque più liberi, ma anche questa “conquista” non nasce da un atto arbitrario: ma è frutto di cause che ci nutrono, ci ordinano, ci spingono. Se invece restiamo dominati da passioni confuse, è perché altre cause hanno prevalso. La libertà, in Spinoza, non è rompere la catena delle cause, ma comprenderla meglio — ma anche questa comprensione è causata.
Anche la nostra resistenza, la nostra indignazione contro ciò che distrugge, sono natura: espressioni del conatus che cerca di preservarsi. Non esiste bene o male assoluto fuori dalla natura, così come non esiste un soggetto separato da essa. Tutto è natura: la pietra che cade, la mano che colpisce, l’occhio che vede, la mente che comprende. Se la mente è ordinata, partorisce idee chiare; se è in balia di superstizioni e passioni, così dev’essere. La scelta di diventare liberi non è una scelta: è un effetto all’interno di un funzionamento. E se cresce, cresce come cresce un fungo nel bosco — quando la terra lo permette.
Forse il punto più intollerabile del pensiero di Spinoza — e per questo più rimosso o addomesticato — non è tanto l’assenza di libero arbitrio, né l’assenza di un bene e male assoluti, ma il fatto che neppure esiste un “io” separato. Deus sive Natura significa: tu, come individuo che pretende di stare fuori da questo ordine necessario, non ci sei.
È una verità così radicale che continua a sfuggire, anche in una cultura che si crede secolarizzata. Perché non lascia scampo neppure all’ultima illusione moderna: l’eccezione umana, la libertà come arbitrio, la giustizia come garanzia di senso. La difesa a oltranza dell’Io biografico sembra ineliminabile per gli occidentali dei nostri giorni, ma paradossalmente è proprio lì, dove l’io si annulla, che siamo immortali: perché siamo natura, e la natura non finisce.
Eppure Spinoza lo intitola Etica. Perché in un universo senza libero arbitrio, l’unico bene possibile non è volere altro, ma comprendere meglio. Chiamare Etica questa geometria della necessità è forse l’atto più scandaloso: affermare che la libertà non è un arbitrio da inventare, ma una chiarezza da accettare — e coltivare, se le cause lo permettono.
Ma da dove è arrivato, questo qui? Con i termini della Scolastica ha tirato fuori l’impensabile. Forse è stato un infiltrato portatore di un germe orientale: l’io è un miraggio, la libertà un malinteso. Una primordiale religione dei quattro elementi, un ordine che non consola, non redime, non giudica. Tecnicamente e etimologicamente disumano. Forse non è un essere ancestrale ma ancora troppo moderno per essere davvero assimilato.
Messinscena metafisica
“Destino” dice tanto un cieco funzionamento quanto una regia nascosta: un’ambiguità funzionale a strategie consolatorie. La provvidenza è legata a un’intenzionalità proiettata dal soggetto umano sul cosmo: l’universo — o Dio — starebbe tramando in mio favore, una sorta di messinscena metafisica a misura d’uomo.
La necessità, invece — ciò che è come è, indifferente a me, perché non può essere altrimenti — dissolve questa intenzionalità in un ordine impersonale e inesorabile. L’antropocentrismo si scioglie in un ontologismo puro.
Eppure, se guardiamo intorno, fra provvidenza e necessità non c’è partita: vince la superstizione. Più dolce l’illusione di un occhio che veglia, di un disegno cucito sul desiderio di immortalità.
Ma a chi non teme di vedersi fuori dal centro, a chi avverte il retropensiero che l’ordine provvidenziale è un mito di second’ordine, la necessità appare più pacificante di ogni disegno benevolo: nessuna messinscena antropocentrica, nessuna fiction sospetta. Ciò che è, è come deve essere, indifferente a noi — e perciò più vero. La freddezza del reale è verità più accogliente di una menzogna calda. Ciò che consola è la corrispondenza tra ciò che vediamo fuori e ciò che intuiamo dentro: l’ordine impersonale è speculare alla nostra capacità di pensarlo.
La mente, nel suo sforzo di vedere il tutto sub specie aeternitatis, si riconosce come espressione di quell’ordine. E in questa coincidenza sparisce la scissione tra soggetto e mondo, tra “me” e “ciò che accade”: è giusto così, va bene così. In altre parole: la provvidenza rassicura l’io — la necessità dissolve l’io, e questa dissoluzione, se accettata, toglie all’io la radice stessa dell’angoscia. Conoscere questo ordine, impersonale e incorruttibile, è già aderirvi, sciogliendo l’io dalla sua superstizione segreta. Allora la mente, liberata da un destino cucito su misura, respira nell’aria vasta del possibile: un animale fra gli animali, una forma fra le forme. Nulla di più, nulla di meno.
L’ indifferenziato
Un pinguino è un pinguino, una quercia è quella quercia e non un’altra, non è un orso e neppure l’Uno neoplatonico. Dire corpo è dire individuo: senza modi specifici, senza confini, senza funzioni differenziate, la vita non può sussistere. Cos’è, allora, l’“oceano indistinto”[1] di cui parla certa psicoanalisi? L’intrauterino, il pre-personale, il cosmico: quello stato frequentato da neonati, da psicotici e da mistici?
In realtà — anche se non mancano ambiguità e confusioni — l’oceano indistinto è un mito culturale, non un dato naturale. “Nasciamo indistinti, ci individuiamo, possiamo regredire” è una metafora utile per raccontare la porosità dei confini dell’Io, non a descrivere un organismo reale. L'individuazione è individuazione culturale, faccenda umana, i grilli nascono già individuati.
Improbabile che uno psicotico lo sia diventato passeggiando nel bosco mentre si percepiva tutt’uno con la natura —fondersi non è dissolversi —, più probabile che qualcuno ne sia guarito.
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1 Spinoza probabilmente rifiuterebbe questa definizione giudicandola confusa. Nel suo sistema non c’è origine indistinta: ma sostanza unica che si esprime in modi finiti, ciascuno determinato.
Cristo, Don Chisciotte, profeti e bombi
Cristo, Don Chisciotte, i profeti: figure di una stessa ferita. Quando la potenza biologica di vivere si intreccia radicalmente al desiderio di trasformare il mondo, nasce l’umanesimo militante, messianico, tragico. La tragicità sta nello scarto tra ciò che l’uomo sogna e ciò che il mondo è: la speranza inchiodata alla storia concreta[1].
L’impegno personale perché il mondo sia un po’ migliore resta un valore fondante, imprescindibile: è ciò che rende umano il nostro passaggio. Ma l’iperempatia può farsi trappola: burnout esistenziale estremo, senso di responsabilità assoluto, super-identificazione con la missione salvifica.
Il Sé si annulla pur di restare fedele a un dovere impossibile. È un narcisismo senza autocelebrazione: culto di un’immagine di purezza, di redenzione. «Se non salvo il mondo, io non sono».
Una grandiosità che non si esalta, ma si sacrifica. Nessuno spazio per l’imperfezione.
Oggi, guardando i bombi sui fiori di lavanda [sotto un breve video], ho visto che la natura — il mondo in cui gli uomini accadono — è reale, mentre il mondo degli uomini è un artificio.
I bombi non conoscono missioni né martiri. Vivono in un tempo senza scopo, senza colpa, senza debiti di salvezza. Un filare di salvie non chiede di essere salvato né giudicato. È.
Accettando la colpa di non essere necessari possiamo salvarci.
L’impegno rimane: trasformare un poco il mondo, restare fedeli a ciò che conta davvero.
Il resto respira da sé.
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1 In termini spinoziani tale scostamento genera tristitia, che a me viene ogni volta che penso a Gaza. Spinoza invita a elaborarla, comprenderla, contenerla, perché se estrema può sopraffare la potenza di esistere (conatus). Nell’Ethica Spinoza definisce le passioni come modificazioni della potentia agendi, cioè della capacità di agire. La tristitia è, per definizione, una passione di diminuzione. È un affetto di contrazione, di restringimento: ci chiude, ci separa da ciò che ci rafforza, ci rende meno capaci di perseverare nell’essere. Non serve a nessuno, se non a distruggere ulteriormente. La storia rendiconta depressioni estreme e anche suicidi di idealisti e di militanti del bene sconfitti. Nel contesto possiamo dire che la tristitia è la crepa tragica di chi porta su di sé il peso di un dovere storico troppo grande. Il profeta martire vive nella tristezza perché scambia la diminuzione di sé per prova di purezza. Spinoza suggerisce invece di radicare l’impegno nel gaudium — la gioia di potenziare sé stessi e gli altri senza immolarsi. Non rinunciare all’impegno, ma non lasciarlo diventare una passione triste.