BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

NOTA! Questo sito utilizza i cookie e tecnologie simili.

Se non si modificano le impostazioni del browser, l'utente accetta. Per saperne di piu'

Approvo
Giovedì, 17 Luglio 2025 23:04

Spinoza e l’Oriente: l’assoluto ha molti nomi

Scritto da 
 Joseph Wright of Derby, Filosofo tiene una lezione sul planetario Joseph Wright of Derby, Filosofo tiene una lezione sul planetario

Una parte sorprendente del pensiero di Spinoza si intreccia armoniosamente con le grandi filosofie dell’Oriente[1].

Senza forzature, senza sincretismi facili.
Come se voci lontane parlassero la stessa lingua segreta.

Con parole diverse, tradizioni come il Vedānta indiano, il Buddhismo o il Taoismo affermano ciò che Spinoza formula con rigore geometrico:
un principio assoluto, infinito, autosufficiente, da cui tutto scaturisce come espressione, riflesso o forma.

La somiglianza più profonda emerge con l’Advaita Vedānta, il “non-dualismo” indiano.
Lì, Brahman è l’assoluto: eterno, immobile, oltre ogni distinzione.
Come la Sostanza di Spinoza — che lui chiama anche Dio o Natura — Brahman è tutto ciò che è. Nulla esiste fuori da lui.

In entrambi i sistemi, gli esseri finiti non sono separati dal principio originario:

•per Spinoza, sono modi della Sostanza,

•per l’Advaita, sono apparenze (Māyā) di Brahman.

Con una differenza decisiva:
in Spinoza, i modi sono reali — finiti, certo, ma espressioni autentiche della Sostanza.
Nel Vedānta, invece, Māyā è illusione: un velo che fa sembrare molteplice ciò che è in verità uno e indivisibile.

Eppure, anche Māyā non è qualcosa di separato: è un potere di Brahman, come il riflesso è inseparabile dalla superficie che lo riflette.
L’infinito si manifesta nel finito, ma il finito non può esaurirlo.

Qui si apre la distanza tra i due pensieri.

Per Spinoza, noi e il mondo siamo già in Dio.
Non dobbiamo abbandonare nulla, né tornare a qualche origine perduta.
La beatitudine nasce quando ne diventiamo consapevoli — attraverso idee adeguate, che ci mostrano come ogni cosa esprima, a suo modo, l’infinito.

Nel Vedānta, invece, la realizzazione avviene vedendo l’irrealtà del mondo fenomenico.
Vedere un fiore non è vedere la realtà, ma un’apparenza.
Ciò che ci fa percepire il fiore non è il fiore, ma la coscienza in cui esso appare.
Una coscienza assoluta, infinita, che non è soggetto né oggetto, ma presenza pura[2].

Per Spinoza, invece, quel fiore è reale.
È un modo della sostanza: limitato[3], ma non illusorio.
È Dio stesso che si esprime in quella forma, in quell’attimo, senza che nulla vada perduto.

Due sguardi diversi, due vie convergenti.

____________________________________

 

¹ Non abbiamo prove dirette che Spinoza conoscesse i testi del Vedānta, del Buddhismo o del Taoismo. Tuttavia, è plausibile che idee sapienziali abbiano viaggiato da Oriente a Occidente lungo vie sotterranee, riemergendo in Europa in forme nuove e rielaborate. È altrettanto possibile che il convergere filosofico tra pensatori distanti per tempo e luogo sia frutto di una comune esigenza dell’intelligenza umana: comprendere l’unità del reale.

² Nel Vedānta, Brahman è spesso identificato con la “coscienza” pura, priva di oggetto. È un concetto controintuitivo per il pensiero occidentale, poiché siamo abituati a pensare la coscienza come sempre “coscienza di qualcosa”. Invece, Brahman, in quanto coscienza assoluta, non può essere limitato da alcun oggetto senza perdere la propria infinità. Solo nella dissoluzione di ogni determinazione resta l’essere-coscienza: senza forma, senza contenuto, senza soggetto e oggetto. Il reale si svela proprio nella negazione di ogni confine.

³ A riprova di quanto Oriente e Occidente si tocchino su queste tematiche, vi è contiguità tra la concezione vedantica della coscienza divina infinita che, in quanto tale, non può essere coscienza di qualcosa, e una celebre formula che Spinoza riprende dal pensiero scolastico di Suárez: “Ogni determinazione è negazione”. Per Spinoza, ogni cosa finita esiste perché non è qualcos’altro. Ogni affermazione determina un’esclusione: un cerchio è tale solo perché non è un triangolo, né un rombo, né altro. A differenza del Vedānta, però, questa non è una logica dell’illusione, bensì della necessità: determinare è selezionare, e selezionare implica negare alternative possibili. In Spinoza, la finitezza non è errore, ma condizione reale dell’essere: ogni forma esiste proprio perché è ciò che non sono tutte le altre.

 

Ultima modifica il Giovedì, 17 Luglio 2025 23:44
Altro in questa categoria: « L’Inesorabile

Lascia un commento

Copyright ©2012 brunovergani.it • Tutti i diritti riservati