Frequentando Spinoza ho rivisto con maggiore chiarezza un nodo irrisolto del pensiero post-teista contemporaneo. I post-teisti hanno giustamente smantellato l’idea di un Dio-persona trascendente. Il Dio che interviene nel mondo con volontà e finalità non trova più spazio. Con accenti e sfumature diverse, hanno affermato la centralità della natura, cui tutto è riconnesso.
Ma ciò che spesso sfugge è che questa stessa concezione dissolve anche l’io umano — non nel senso che l’essere umano sia “nulla”, ma nel senso che non regge più l’idea di un io come soggetto privilegiato, autosufficiente, centro di senso, volontà e libertà. È come togliere il re dal cielo senza accorgersi di averne disseminati numerosi sulla terra: piccoli sovrani interiori che continuano a credersi fondamento del valore e del giudizio. La critica al Dio-persona si attua allora da un io irriducibile, che in alcuni autori post-teisti appare persino ipertrofico: un centro non riconosciuto, ancora operante, incistato nella stessa metafisica che si vorrebbe superare.
Ciò che talvolta manca nella riflessione post-teista è dunque un passo ulteriore: non l’annientamento dell’io, ma la sua ricollocazione consapevole nell’orizzonte impersonale della natura. Una natura che comprende coscienza, pensiero, etica — ma non come entità autonome, bensì come modi contingenti della realtà unica.
È Spinoza a mostrarci come pensare al di là della centralità del soggetto, dentro un orizzonte in cui l’io non è più fondamento ma espressione. Il suo sistema dissolve radicalmente l’autonomia dell’io, smantellandone la centralità morale e metafisica — non per distruggere l’umano, ma per ricondurlo come parte viva, non sovrana, dell’ordine naturale.