Spinti per natura a essere e perdurare, ci organizziamo per mantenere a oltranza la nostra incolumità, come se il mondo fosse un meccanismo difettoso che, con un’accurata prevenzione, possiamo in qualche modo controllare e correggere.
Certo, un po’ di controllo è alla nostra portata: nel votare un politico capace invece di un deficiente, nella medicina preventiva, nell’osservare il codice della strada e in contingenze del genere.
Ma quando si tratta delle grandi questioni dell’esistere, le cose si complicano: nessuno decide di nascere, di respirare, di invecchiare. Il cuore batte da sé, le cellule si moltiplicano per conto loro. Manco sappiamo come abbiamo fatto a svegliarci questa mattina o a digerire la cena di ieri sera. E poi c’è la morte, l’estremo dell’incontrollabile.
Non ci siamo fatti, e non ci facciamo da soli. La naturale pre-potenza che ci precede e contiene, che ci costituisce e “fa”, è la forma stessa della realtà.
La controprova è semplice: più ci impegniamo nel monitoraggio preventivo di eventi che possono nuocerci, più montano ansia e paura. Più lasciamo andare, più accettiamo e ci affidiamo al naturale corso delle cose, più siamo sereni.
Probabile che questa angoscia da prestazione esistenziale derivi da un sospetto profondo verso noi stessi: nel momento in cui tentiamo di controllare la realtà, percepiamo — sotto sotto — che essa si muove già secondo un incontenibile ordine suo proprio.