Si cita spesso, quasi con leggerezza, il celebre Deus sive Natura di Spinoza, per poi aggiungere come un riflesso condizionato: “Panteismo”. Lo si ripete come fosse un motto innocuo di filosofia da salotto, senza sentire quanto sia, per noi Sapiens, un pensiero inaudito.
Specialmente due le idee intrinseche al Deus sive Natura, che restano quasi insostenibili: l’ontologia e la libertà.
Ontologia
Per Spinoza, un fungo e un essere umano esistono con la stessa necessità: sono modi della stessa sostanza, nessuno “vale” più dell’altro in senso assoluto. Certo, un uomo ha maggiore potenza: pensa, agisce, trasforma l’ambiente. Ma questa superiorità è solo relativa alla sua capacità di perseverare nel proprio essere (conatus). Dal punto di vista umano, il fungo è nutrimento o ostacolo; dal punto di vista del fungo, l’uomo può essere irrilevante o distruttivo. E dal punto di vista di Dio, che è la natura stessa, tutto accade con perfetta necessità: il fungo che decompone, l’uomo che costruisce o devasta, la guerra, la pace.
Libertà
Spinoza nega il libero arbitrio come facoltà di decidere indipendentemente dalle cause. L’uomo non è un regno dentro un regno. Tutto ciò che pensiamo e facciamo è effetto di cause naturali. Possiamo diventare più razionali e dunque più liberi, ma anche questa “conquista” non nasce da un atto arbitrario: ma è frutto di cause che ci nutrono, ci ordinano, ci spingono. Se invece restiamo dominati da passioni confuse, è perché altre cause hanno prevalso. La libertà, in Spinoza, non è rompere la catena delle cause, ma comprenderla meglio — ma anche questa comprensione è causata.
Anche la nostra resistenza, la nostra indignazione contro ciò che distrugge, sono natura: espressioni del conatus che cerca di preservarsi. Non esiste bene o male assoluto fuori dalla natura, così come non esiste un soggetto separato da essa. Tutto è natura: la pietra che cade, la mano che colpisce, l’occhio che vede, la mente che comprende. Se la mente è ordinata, partorisce idee chiare; se è in balia di superstizioni e passioni, così dev’essere. La scelta di diventare liberi non è una scelta: è un effetto all’interno di un funzionamento. E se cresce, cresce come cresce un fungo nel bosco — quando la terra lo permette.
Forse il punto più intollerabile del pensiero di Spinoza — e per questo più rimosso o addomesticato — non è tanto l’assenza di libero arbitrio, né l’assenza di un bene e male assoluti, ma il fatto che neppure esiste un “io” separato. Deus sive Natura significa: tu, come individuo che pretende di stare fuori da questo ordine necessario, non ci sei.
È una verità così radicale che continua a sfuggire, anche in una cultura che si crede secolarizzata. Perché non lascia scampo neppure all’ultima illusione moderna: l’eccezione umana, la libertà come arbitrio, la giustizia come garanzia di senso. La difesa a oltranza dell’Io biografico sembra ineliminabile per gli occidentali dei nostri giorni, ma paradossalmente è proprio lì, dove l’io si annulla, che siamo immortali: perché siamo natura, e la natura non finisce.
Eppure Spinoza lo intitola Etica. Perché in un universo senza libero arbitrio, l’unico bene possibile non è volere altro, ma comprendere meglio. Chiamare Etica questa geometria della necessità è forse l’atto più scandaloso: affermare che la libertà non è un arbitrio da inventare, ma una chiarezza da accettare — e coltivare, se le cause lo permettono.
Ma da dove è arrivato, questo qui? Con i termini della Scolastica ha tirato fuori l’impensabile. Forse è stato un infiltrato portatore di un germe orientale: l’io è un miraggio, la libertà un malinteso. Una primordiale religione dei quattro elementi, un ordine che non consola, non redime, non giudica. Tecnicamente e etimologicamente disumano. Forse non è un essere ancestrale ma ancora troppo moderno per essere davvero assimilato.