BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Bruno Vergani

Bruno Vergani

Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.

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Venerdì, 25 Settembre 2015 09:24

Libri

Il detto per sua struttura e ritmo talvolta annaspa per raggiungere la puntualità dello scritto. Scritti precisi e ben ponderati risultano sovente incomprensibili e anche antipatici al lettore tardo o frettoloso; è come se la scrittura invitasse a percorrere territori precisi talora estranei al lettore con velocità e direzione decisa dallo scrittore.

Potrebbero non piacere quei posti, ma per saperlo è necessario che il lettore li frequenti tenendo il passo. Umile remare senza preclusioni di rotta che estraneo ai “non m’interessa” prende iniziativa e non molla con dei “non capisco” quando richiesto passo veloce in territorio impervio o straniero.

Mercoledì, 23 Settembre 2015 20:56

Massimo Borghesi, Luigi Giussani

Il saggio monografico del filosofo Massimo Borghesi «Luigi Giussani. Conoscenza amorosa ed esperienza del vero. Un itinerario moderno», analizza il pensiero di Luigi Giussani (1922-2005) dipanando con approccio filosofico e teologico le categorie fondamentali del pensiero giussaniano, oltre ad esporre l’inedito approccio “tomistico esistenziale, moderno, libero e aperto” e la correlata dialettica culturale e storica - all’interno della Chiesa cattolica e della società civile, dagli anni Cinquanta del Novecento fino alla sua morte - e connesse accuse di modernismo e di integrismo, tutt’oggi presenti, che Borghesi agilmente risolve in favore del protagonista.

Una articolata illustrazione delle categorie della tradizione cattolica ri-attualizzate da Giussani e insieme del suo “pensiero sorgivo”, aventi come punto di partenza il “senso religioso” - categoria attinta da Montini -  inteso, con taglio ontologico ed esistenziale, come il peculiare e insopprimibile anelito umano al significato dell’esistere, del vivere e del morire. Senso religioso che per implicita universalità favorisce il dialogo con qualsiasi uomo e cultura.

Per temperamento su questo punto simpatizzo con l’approccio di Giussani e Borghesi constatando che, pur non definendolo necessariamente “senso religioso”, l’umano pensiero, da sempre, affronta tale dato di “mancanza” elaborando, come testimoniano estesi tratti della storia della filosofia, percorsi d’emancipazione. Tuttavia nel contempo non possiamo omettere di affrontare possibili ipotesi d’infondatezza riguardo tale supposta mancanza, specialmente in un volume che, estraneo allo stile agiografico devozionale, espone il pensiero di Giussani con rigore filosofico. Nel merito di questa ipotesi di infondatezza riguardo la categoria della mancanza esistenziale, cito il famoso frammento 30 di Eraclito, che per nulla insoddisfatto dimostra che l’uomo, oltre a essere esistenzialmente “capace di Dio” per sanare oceaniche insoddisfazioni, è anche abile in tutt’altro: «Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era, è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura».

Teoria della mancanza anche poggiante su forme latenti, consapevoli o meno, di nichilismo e connessi esistenzialismi: da quelle parti se immenso sarà il buco di congrua quantità dovrà risultare la sostanza per chiuderlo. Mancanza che in chiave psicoanalitica viene talora interpretata conseguenza della totale dipendenza del neonato dall’Altro incistata nell’adulto. Languore esistenziale che, al pari e a maggior ragione di quello gastrico, esigerebbe indagine accurata, che l’Autore invece pone, senza dimostrarlo, come dato di fatto acquisito e inconfutabile.

Nel porre a fondamento tale presupposta mancanza sorgerà immediata la domanda corrispondente, posta la domanda corrispondente irromperà la risposta conforme, che Giussani indica nel sorgere dell’Avvenimento cristiano in quanto risposta esauriente e concreta nell’incontro-esperienza di Cristo nella Chiesa cattolica, più precisamente nel pezzo di Chiesa denominato Comunione e liberazione, "conoscenza amorosa" nella relazione dell’io con un “tu” verità risolutiva “cercata dal soggetto ma imposta dall’oggetto”, dove l’io troverebbe, finalmente, corrispondenza compiuta con la realtà. Concezione che armonizzerebbe ontologia (quella dell’Essere con la maiuscola) con realtà fenomenica.

Proposta legittima personalmente verificata anni fa apprendendo in presa diretta le categorie giussaniane dalla viva voce “del più grande educatore del '900”, oltre a trovarmi su sua perentoria e precisa indicazione a praticarle obbedendo, come a Cristo in terra (letteralmente), a tale oggi a processo per presunta associazione a delinquere insieme a altri ciellini. Forse c’è qualcosa che non va.

Non intendo universalizzare la personale e circoscritta fallimentare verifica sul campo per criticare un libro in numerosi passaggi valoroso, meritevole di rilettura e di congrua recensione ben oltre a queste stringate annotazioni a caldo, ma rilevare che le categorie di pensiero di Giussani - e di chicchessia - di per sé mere scatole vuote, più precisamente più sono grandi più risultano vuote, andrebbero dettagliate con precisione riguardo i contenuti: omettendo la fattispecie sembra si dice ma invece si tace. La generale categoria di verità “cercata dal soggetto ma imposta dall’oggetto” va bene per Hitler e per san Francesco perché vuol dire tutto e niente, così quelle di “fatto”, “esperienza” e “incontro”, che se monche di circostanziati contenuti di metodo e prassi vanno bene allo studente per passare l’esame, ma risultano vane al personale vivere.

Massimo Borghesi,
"Luigi Giussani. Conoscenza amorosa ed esperienza del vero. Un itinerario moderno" Edizioni di Pagina, Bari, 2015.

Domenica, 20 Settembre 2015 10:01

Animale uomo?

Anche i gatti rivelano differenti caratteri e i cani ancor di più, ma la diversità tra persone può rivelarsi tanto assoluta da rendere plausibile l’ipotesi che non siamo animali.

Fiere, scalzacani, soggetti ordinari o dìi, ma non animali.

Venerdì, 18 Settembre 2015 10:35

Diario clinico di un disabile

Il divorzio era stato devastante e per distrarmi frequentavo amici e specialmente amiche. Uomo single dal carattere conciliante. Tale Brigitte mi aveva contattato da Parigi, aveva sentito parlare del mio lavoro d’erborista da amici comuni e desiderava collaborare con me. Ero stato da lei e poi lei da me e senza accorgermi me n’ero innamorato. Il bacio alla francese non era una leggenda, esisteva davvero: arcani movimenti rotatori e aspiratori che mi facevano perdere i sensi, come i ladri del medioevo che mettevano di nascosto i semi di datura nel vino della vittima e quando si addormentava la derubavano. Avevo creduto per un momento d’essere felice, invece l’innamorarmi aveva coinciso con una malattia, una febbre che mi rendeva severamente disabile.

La fidanzata parigina era più sana e equilibrata nella relazione rispetto a me, anche se piuttosto stronza: nutriva un affetto vago confuso all’interesse per il mio lavoro. Senza di lei l’attesa era insopportabile, un avvento continuo come aspettare Gesù Bambino. Avevo bisogno di lei, il fatto era che se lei non mi amava io morivo, quindi invece che morire era meglio le mi amasse e per farmi amare io diventavo come lei voleva, mi conformavo e ingurgitavo a fatica la zuppa di soia condita col tamari che aveva cucinato, noncurante del voltastomaco le dicevo che era superba, da perfetto deficiente glie lo dicevo in francese: senza farmi notare inspiravo più che potevo e un po’ ancora, poi emettevo dal profondo dell’anima una lenta espirazione per far uscire una erre roulant eterna che esprimesse la mia devozione assoluta per lei. Partiva e io rimanevo lì, fermo ad aspettarla, senza fiato con la brodaglia esotica sullo stomaco, pietrificato dall’angoscia.

Se era a Parigi mi mancava, ma quando tornava iniziava il supplizio perché era malata delle teorie del benessere: tre ore di yoga alla mattina, strane pratiche d’inspirazioni d’acqua nel naso come un elefante e poi le nevrosi sul cibo: il carboidrato, la proteina, e mangia così e mangia cosà e respira così e respira cosà. Quando andavo io a casa sua era ancora peggio, aveva i fornelli elettrici perché quelli a gas, a suo dire, potevano perdere e mentre dormivi ti ammazzavano. Quando lavavo i piatti dovevo utilizzare poco detersivo altrimenti inquinavo tutto il pianeta e solo qualche goccia d’acqua perché altrimenti tutta la terra moriva di sete per colpa mia. Vietato fumare. Avevo fumato lo stesso il Toscano extravecchio al freddo del suo balcone, ma un po' di fumo, a suo dire, era penetrato nell’immacolato appartamento contaminandolo, così avevo smesso di fumare anche per poterla baciare senza che si lamentasse per l’alito che sapeva di tabacco. Era allergica al glutine, addio cucina italiana. Tiroide fuori uso come di moda per le donne moderne, di lavoro però curava gli altri e quando avevo chiesto un caffé aveva sobbalzato come se una goccia di caffeina potesse uccidermi. Poi ritornavo in Italia e invece di realizzare che era una poveretta mi sentivo perduto. Visti i presupposti sei mesi di massacro. Alla fine mi aveva mollato lei e in un paio di mesi ero guarito dalla psicosi e forse anche immunizzato. Trascorsi dieci anni, pur risposandomi, nessuna ricaduta.

Mercoledì, 16 Settembre 2015 09:01

Sostrato

Per i religiosi disillusi come sono io, puntuale emancipazione dalla voragine lasciata dalla concezione di un Dio che non c’è più viene dall’osservazione e dall’indagine del sostrato, la sostanza primordiale, costitutiva e fondamentale, che regge gli accidentali mutevoli fenomeni. Una tensione che nell’indagare e onorare il sostrato appare prossima al naturalismo. Coinciderebbe precisa se non fosse per due fattori:
constatare l’evento uomo scostarsi per coscienza e autocoscienza, pensiero e mete, dal generale “funzionamento” dei meccanici universali fenomeni, da qui il lasciare la porta aperta così da non precludere la speculare possibilità che il sostrato sia anch’esso costituito in qualche modo da pensiero, da una qualche forma di autocoscienza che lavora precisa.

Martedì, 15 Settembre 2015 14:09

Mia cognata

Mia cognata infermiera all’ospedale di Taranto teorizza che oltre i settanta anni è meglio morire. Augura a lei, e a tutti quanti, di cessare senza angoscia e senza dolore preferibilmente nel sonno profondo, ma non concede rinvii. C’è da dire che mia cognata non ha manco cinquanta anni e non possiamo escludere che arrivata a settanta riveda la sua teoria alzando la soglia della dipartita. Il fatto è che lei ogni giorno incontra ricoverati ultrasettantenni sempre sofferenti e talvolta angosciati. Mica tutti i settantenni del mondo stanno così, ma i suoi sì e proprio tutti, così vede da lì il mondo; tutto sommato un punto di vista privilegiato: un reparto ospedaliero è una minima parte di mondo, eppure giudizio universale, basta farci entrare qualsiasi pensiero, concezione, verdetto, affermazione e osservare se si paralizza e collassa, oppure “tiene” in esattezza, veridicità, legittimità, anche lì.
E poi mia cognata ha la scienza e anche la statistica dalla sua parte: il primo fattore di rischio per la salute non è l’alimentazione e neppure il fumo di tabacco, ma l’età. Più avanzi negli anni più rischi di ammalarti. La statistica sentenzia, dunque, che l’esposizione alla vita fa male e l’esposizione prolungata malissimo. Mai cercare su Facebook il compagno di scuola che non vedi da decenni, ti potrebbe apparire una faccia orribile… Ma cosa gli avranno mai fatto? Ma cosa gli è successo? Ha vissuto. Strani i reparti geriatrici, più curano e più allungano la vita che è il più serio fattore di rischio per la salute. A parte la perentoria scadenza fissata ad anni settanta la serena rassegnazioni di mia cognata non è infondata.

Forse  bluffo, però talora mi accade di non avvertire sostanziale differenza nel morire a sessanta anni, novanta o subito, talvolta invece l'ipotesi dell'epilogo imminente mi scoccia assai - scrivo scoccia ma si legge angoscia -  e se campassi in buona salute non mi dispiacerebbe rimanere vivo ancora per un po’, anzi per un bel po’,  per compiere il mio percorso di uomo, di pensiero, di ricerca, riguardo il quale - chissà perché? - ogni volta che si raggiunge meta se ne vede in distanza un’altra,  però non è escluso che tale lavoro possa proseguirlo, in qualche modo, anche dopo morto. Al riguardo non ho prove sicure ma neppure smentite certe che mi precludano tale possibilità. Così a parte tale percorso, oltre agli amici e ai prossimi cari dai quali prendo e do con profitto e piacere, per tutto il resto mi congederei volentieri: ho già dato e non mi entusiasma rimanere ancora solo per aggiustare la serratura della porta se rotta, lavare l’automobile se sporca, tagliare il prato se alto, fare la spesa e seguire la prevedibile cronaca politica. Per campare faccio l’erborista e in trentacinque anni di professione ho preparato una ventina di tisane ogni giorno, così duecentomila clienti hanno urinato e defecato un po’ meglio grazie al mio impegno e a qualcuno si sono anche sgonfiate le vene varicose, opera che può agilmente continuare grazie a chicchessia se fornito di un minimo di passione. Tutto sommato pensando ai cari estinti considero che si stanno evitando numerose incombenze fastidiose e anche dolorose. Se mio padre fosse morto dieci anni dopo? Morire, sicuramente morire; così rilevante farlo un po’ dopo o un po’ prima? Così opto per una via di mezzo e continuo - tendiamo a dimenticarlo ma continuare è una scelta in quanto esiste il suicidio, problematica filosofica cruciale - evitando, però, di sottopormi ai dogmi medicali d’Occidente: colonscopie per diagnosticare un cancro in fase iniziale dentro le budella e TAC ai polmoni per i fumatori incalliti come me. Se la diagnosi precoce mi renderebbe immortale, come il dogma medicale sembra suggerire, l’avrei anche considerata. Se mi ammalerò mi curerò, ma intanto continuo spontaneo.

Ma a che serve la vita? Non serve a niente, mica è una seggiola o una automobile che servono a farti sedere e portarti al supermercato. Non so a cosa serve ed è sorta spontanea non so da dove, non conosco il perché e non so come. Francamente non mi ricordo di preciso neppure quando è iniziata, forse indizio che manco finisce.

Venerdì, 11 Settembre 2015 11:40

Se ci sei batti un colpo

Mettersi a psicoanalizzare le religioni orientali potrebbe rivelarsi operazione da perfetti deficienti.
Così un po’ saggio le onoro e forse deficiente osservo che fra le strategie difensive dei deboli si contempla quella evitante, quella che piuttosto di rischiare di perdere preferisce non giocare. Scorgo una versione assoluta e sacra di tale strategia imperversare da Oriente - e anche un po’ dalle nostre parti: alcuni tratti di Plotino, taluni aspetti del Maestro Eckhart, parte della tradizione mistica nostrana e qualche concezione New Age.

E’ la strategia che attacca frontalmente l’Io valutandolo ente impersonale, nonnulla, agglomerato d’irreali apparenze. Io rarefatto, senza memoria, senza storia e correlata biografia mera scatola nera contenente paciughi di ricordi anch’essi irreali, francamente un po’ mi scoccia dopo tutto il remare che ho fatto buttarla via così.

Non solo, dunque, un Io che patologicamente immobile in un angolo schiva l’azione per non rischiare di perdere, ma un Io che per evitare ogni insuccesso si auto-omette da sé medesimo negando addirittura di esserci. Non mi sembra mica tanto sano, evoca un otorinolaringoiatra che si fa passare il mal di gola con un preciso colpo di pistola alla tempia: successo garantito. Forse meglio l’italico esigere d’avere un Creatore con forte personalità, geloso e anche esigente, così da andare all’inferno sia pure per l’eternità ma con l’Io pimpante e integro.

Giovedì, 10 Settembre 2015 08:14

60-65

« … Penso che a vent’anni i nostri animi si siano ormai sviluppati quanto devono esserlo, e promettano quanto potranno. Mai un animo che non abbia dato a quell’età testimonianza ben evidente della sua forza, ne dètte la prova in seguito. Le qualità e le virtù naturali mostrano entro quel termine, o mai, quello che hanno di vigoroso e di bello. » Montaigne, Saggi - Libro I, Capitolo LVII « Dell’Età ».

Senza precludere possibili sviluppi dopo una certa età, diciamo 60-65, quello che si è pensato, elaborato e detto sovente non si sviluppa ma - mica è poco - si consolida e precisa. Per quanto osservo intorno, tale rafforzamento e perfezionamento si manifesta in puntualità, in una maggiore semplicità nel dire senza cadere nel semplicismo.

Martedì, 08 Settembre 2015 16:25

Perché siamo come siamo

Potrebbe risultare bislacco riferire mischiati i pensieri che mi hanno stimolato due libri differenti, ma se contigui nel merito, scritti dal medesimo autore e letti in successione, si può anche fare; autore che in entrambi i libri affronta e teoreticamente e testimoniando personalmente e professionalmente sul campo del quotidiano vivere, quanto «la vita affettiva e sentimentale parla di noi e di come siamo fatti con una precisione sconosciuta», enucleando come tale personale stile di vita si è formato, costituito e istituito in noi.
Così, senza soluzione di continuità commento, in libertà, la lettura de  
«I legami che ci aiutano a vivere; l’energia che cambia la nostra vita e il mondo» (Universale economica Feltrinelli) e
«Bambini; perché siamo come siamo» (La Scuola),
dello psicoterapeuta e analista adleriano Domenico Barrilà che con un diretto approccio clinico e esistenziale, nonché in sottotesto sociale, espone e spiega il costituirsi e gli sviluppi della personalità analizzandone snodi e nodi, impantanamenti e possibili redenzioni.

Si potrebbe affermare che i due libri trattino di “economia”: la persona, e a maggior ragione il bambino bisognoso per condizione, persegue una logica che punta ad un immediato profitto. Vuole subito mettere qualcosa di buono sotto i denti e quando la otterrà tenderà a ripetere la mossa che gli ha procurato frutto. Sonderà l’ambiente valorizzando e replicando quei gesti che, sul momento, produrranno risposte piacevolmente utili e inibendo iniziative che non daranno risposte, o ne procureranno di dolorose o infruttuose. Per trama logica implementerà così, via via, una direzione, una strategia, uno stile di vita. Nel bambino lo stato di necessità - senza l’intervento altrui non potrebbe letteralmente vivere - ed il peculiare universo di “prima volta” nel quale è immerso produrranno un processo di incistamento di queste primarie esperienze. Esperienze lì per lì valutate nell’insieme convenienti, senza vagliare quelle davvero utili perché attivamente empatiche e costruttive, da dissimulazioni e simulazioni, atteggiamenti rinunciatari o aggressivi al momento apparentemente efficaci, ma a medio e lungo termine severamente controproducenti. Così un bambino arriva in prima elementare già “formato” nel bene e nel male. Potrà evidentemente ancora operare per modificarsi così da raggiungere mete e ottenere soddisfazioni, ma solo a partire da quella precisa struttura.

Dinamica complessa il formarsi della personalità e il correlato stile di vita, da una parte determinato da casualità: DNA (incluso lo stato di salute o di malattia organica) e ambiente; al riguardo annoto che se la compiuta realizzazione individuale dipendesse unicamente dalla personale iniziativa e responsabilità, dati statistici riscontrerebbero pari indice medio di soddisfazione in soggetti nati in Lussemburgo con corporatura statuaria in possesso di paterna eredità milionaria e storpi nati in Liberia da genitori denutriti. Siccome i conti non tornano avvantaggiati e svantaggiati sentenziano che non possiamo trascurare la forza dirompente e gloriosa della casualità. Nel contempo agisce la forza, un po’ misteriosa eppure presente nel bambino, specifica del soggetto: causalità dove a parità di condizioni c’è chi resiliente imprende realizzandosi più di altri.

L’educatore davanti a tale articolato e variegatissimo fluttuare di fattori svolge il compito di individuare primari incistamenti dannosi, apparentemente ragionevoli e utili nel circoscritto momento del loro formarsi, ma poi veri e propri equivoci, strabismi sempre più inadeguati e controproducenti. Come diagnosticarli? Urge un’interminabile analisi del profondo? Barrilà nel solco di Alfred Adler offre indicazioni precise, semplici, rapide: basta osservare il bambino (e l’adulto) in relazione agli altri, lì in famiglia, a scuola, nel gruppo di amici. Nel suo relazionarsi con gli altri mostrerà con precisione chi è e dove intende andare. Analisi che l’Autore semplifica senza anestetizzare, indizio preciso di competenza.

Educare è verbo ambiguo, può significare attenzione ma anche mite sopraffazione, ovvero infantilizzazione, educatori che a partire dalle proprie teorie o ideali si ostinano nell’ossessivo progetto sistematico della formazione integrale degli altri, di tutti gli altri - di solito tale tipologia preferisce agire su gruppi sociali che sul singolo - così da imporre e inculcare, al pari degli educatori cinofili, supposte codificate verità assolute. Progetto fisso che fagocita l’altro, calco che produce dozzinali statuine in serie. Educare per Barrilà è esattamente l’opposto, appare chiarissimo in tutti i due libri, specialmente nei resoconti clinici dove lontano da ricette osserva, indaga, fluttua libero ma attento come un giocatore di scacchi, ri-analizzando caso per caso la sua interpretazione, in un processo costante della “conoscenza della conoscenza”. Maieutico spontaneo opera in presa diretta illuminando i nascosti equivoci primari e correlati errori di rotta, così da favorire percorsi vocazionali per quanto possibile liberi.  

Non sviluppato, in quanto la tematica affrontata è un’altra, nei due libri c’è un costante sottotesto sociale. Da tempo considero che sarebbe utile uno studio storico, statistico-sociale, che dall’inizio della civiltà conti capi, condottieri, imperatori, statisti e guide spirituali, che mica tanto sani di mente hanno guidato gruppi, nazioni e popoli, così da discuterne insieme i risultati, oltre al chiedermi: salvo lo specifico DNA caratterizzante ogni uomo di pensiero, in che misura il pensiero degli esponenti dell’idealismo è stato influenzato da personali accadimenti fausti? E quelli del nichilismo da avversi? Quanto le tesi filosofiche e le prassi politiche sono state determinate da eventi epocali ma anche condizionate, nel bene e nel male, da episodi dell’infanzia? E in ogni biografia di politici, filosofi, e di tutti quanti, quanta regia procurata da fuorvianti suggestioni nel pensiero per  personali -consce, ma ancor più inconsapevoli- dinamiche remote? Insomma le vicende psichiche personali quanto determinano il mondo?
Se la misura risultasse rilevante occorrerebbe riscrive dall’inizio l’intera storia non solo in chiave storico sociale ma anche psicoanalitica. Chiave di lettura abbozzata da Barrilà, che probabilmente avrà sviluppato, a mia insaputa, altrove.

Due moderatissime perplessità:  
riguardo la descrizione, forse eccessivamente ingenerosa, riguardo Freud e il suo approccio clinico per Barrilà a taglio tutto sommato neurologico, che per quanto ho letto di Freud (una metà dell’opera omnia) valuto parziale, in quanto, mi sembra, la sua indagine poggiasse su tutt’altro: la persona prima dei suoi neuroni.
Non vengono enucleate e sviluppate le potenzialità sorprendenti del bambino, talvolta capace di reggere situazioni estreme poggiando su se stesso e ancor prima abile nel costruirsi un linguaggio attraverso le parole, senza che chicchessia gli spieghi per davvero come si fa.
Tutto sommato non poteva essere che così in libri che dettagliano esperienze di bambini e uomini in difficoltà. Con loro anch’io. «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio».

 

Domenica, 06 Settembre 2015 10:01

Tali e quali

Ho letto di Guido Mazzoni «I Destini Generali» - Laterza Solaris -, arguta analisi dell’Occidente d’oggi, dove collassate le grandi narrazioni imperversa il monoteismo capitalistico e l’uomo occidentale si arrabatta a sopravvivere insoddisfatto nel tempo presente in un asfittico spazio privato. Insoddisfazione generata dall’equivocare il piacere con il godere.

Spietata l’analisi del Sessantotto che con i suoi motti di egoica fantasia al potere, liberazione sessuale correlata a un edonistico godimento, uccisione metaforica del padre ostacolo al raggiungimento di un paradiso in terra di piccole libertà soggettive, ha - “eterogenesi dei fini” - spianato la strada all’imporsi del capitalismo che credeva combattere.

Oggi di ex sessantottini ce ne sono di differenti tipologie, qualcuno è valoroso, tra questi quelli che si mangiano le mani per aver contribuito, loro malgrado e in buona fede, al processo enucleato da Mazzoni, ma per quanto osservo tra i miei conoscenti e amici i più ne sono inconsapevoli, anche se in qualche modo intuiscono che nella loro storia qualcosa di portante è andato davvero storto. Lo si capisce da come si comportano coi minori, figli o non figli : sovente sono caratterizzati da bacchettoneria fine a se stessa, tali e quali alle autorità che da giovani combattevano. Forse un inconscio tentativo di portare indietro la personale e collettiva storia, così da cancellarla e in qualche modo riscriverla.  

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