BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Bruno Vergani

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Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.

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Mercoledì, 27 Dicembre 2023 20:58

Schiatta e sorge

Freud nella conferenza “Noi e la morte” (1915), rendicontando sue fitte e accurate osservazioni cliniche osservò che, sotto, sotto, alla nostra morte mica ci crediamo poi tanto. Anche se deduciamo che alla fine moriremo anche noi, visto che vediamo gli altri prima o poi morire, Freud annota che questo nostro “alla fine” lo collochiamo in una distanza smisurata. Osservazione che guardandoci dentro risulta speditamente condivisibile.

Potremmo liquidare il fenomeno del disconoscimento della morte personale, interpretandolo con la notoria strategia dell’anestetizzare l’angoscia della morte, quello stratagemma psichico, forse biologico, che tenta di interrompere il penoso cortocircuito dato dalla volontà d’esserci a oltranza, che ci alberga naturalmente dentro, che cozza con l’effettiva finitudine biologica che invece constatiamo nel vedere gli altri morire. Freud nella conferenza elabora visuali più stimolanti:

“Per noi è assolutamente impossibile raffigurarci la nostra morte, ed ogni volta che tentiamo di farlo, ci rendiamo conto di assistervi da spettatori [vale a dire come qualcuno che è vivo e vegeto]. È per questo che la scuola psicoanalitica si è ritenuta in diritto di affermare che, in fondo, nessuno crede alla propria morte, o, il che è lo stesso, che ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità”.

Messa così viene da azzardare che questa irriducibile sensazione di immortalità personale, non sia soltanto una scappatoia per lenire la paura della morte, ma abbia invece un fondamento ontologico oggettivo, anche perché non possiamo del tutto escludere che all’angoscia della morte personale attribuiamo un valore forse eccessivo rispetto a quello reale; indizi di sopravalutazione spaziano da Salvo D’Acquisto alle statistiche sui numerosi suicidi.

Per spiegare la sensazione di immortalità che ci caratterizza, potremmo ipotizzare un dualismo ontologico che ci vede nel contempo mortali e immortali. Giani bifronte[1] con una faccia con occhi che, sub specie aeternitatis, osservano la nostra imperitura rappresentazione interiore del mondo e l’altra che guarda là fuori verso il mondo mortale; facce interconnesse e differenti, dove una esprime l’individuale dimensione privata (accessibile solo a noi stessi), atemporale, non locale e non deterministica, l’altra la finitezza della dimensione esteriore pubblica, determinata da cause ed effetti, luoghi che mutano e tempi che iniziano e finiscono.

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1 Per dirla con Schopenhauer mondo come volontà e rappresentazione che i Veda raccontano così: “Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda”.

Giovedì, 07 Dicembre 2023 15:32

Irriducibile

Irriducibile è un libro di Federico Faggin (Bestsellers Mondadori 2023) che tratta la coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, come recita il sottotitolo. Faggin (Vicenza 1941, dal 1968 naturalizzato statunitense) è un fisico e imprenditore, inventore del primo microprocessore commerciale, del touchpad, del touch screen e di molto altro[1]. Va premesso che i contenuti del volume non sono sempre agevoli, anche se in parte chiariti dal glossario alla fine del libro, sia perché talora ridondanti, sia perché trattano concetti complessi di informatica e dinamiche di fisica quantistica piuttosto controintuitive[2], nonché acronimi da termini inglesi che l’Autore imbastisce con frequenza.

Il libro ripropone la teoria ontologica del panpsichismo che, un po’contigua all’animismo, vede l’universo retto da una onnipervadente coscienza che originerebbe gli enti. A differenza del panpsichismo tradizionale, da quello del Vedanta orientale alle concezioni di Talete e di Giordano Bruno, dalle dottrine di Platone e Campanella fino a Leibniz, Faggin sviluppa un modello di panpsichismo che poggia sulle scoperte della fisica quantistica. Analogamente all’essere umano cosciente, che vive una dimensione interiore nella sua psiche e una dimensione esteriore per mezzo del corpo, anche la realtà naturale sarebbe caratterizzata come noi -analogia entis- da una dimensione interiore e da una esteriore. Quella interiore manifesterebbe in presa diretta consapevolezza, sensazioni e significati, mentre l’esteriore interagirebbe attraverso simboli, ossia linguaggi e segni che rappresentano la realtà ma che non sono la realtà. Regni ontologici distinti e interconnessi dove il regno interiore funzionerebbe quantisticamente, mentre l’esteriore sarebbe determinato dalle leggi della fisica classica.

L’Irriducibile del titolo si riferisce alla coscienza, secondo la tesi dell'Autore non riducibile a funzionamenti meccanicistici; coscienza sia intesa come capacità senziente personale, ossia ciò che i filosofi della mente chiamano qualia, cioè le percezioni di specifiche qualità che sperimentiamo, direttamente, del mondo, dai sentimenti come l’amore per un figlio alle sensazioni come il profumo di un fiore[3]; sia coscienza come consapevolezza del proprio essere. Faggin insiste -e vista la sua storia sa bene quello che dice-, che nessuna macchina potrà superare gli essere umani, in quanto le macchine non hanno coscienza. Potranno essere più performanti in certe funzioni (da noi) programmate, ma non potranno mai avere sensazioni consapevoli[4].

Da questa coscienza personale, regno privato (lo si può percepire unicamente dall’interno, ma per comunicarlo all’esterno occorre rappresentarlo simbolicamente), da questa entità unica non clonabile, sorgerebbe il libero arbitrio. Dato che nel funzionamento naturale ogni ente obbedisce a leggi fisse determinate da necessità il libero arbitrio non dovrebbe esistere, in effetti un amminoacido non fa quello che vuole ma obbedisce a leggi naturali. Perché ci sia libertà occorre una unità di coscienza autonoma[5] svincolata dal funzionamento naturale, entità libera che Faggin colloca nella nostra dimensione interiore. Fuori di noi abbiamo, dunque, il mondo regolato dai vincolanti algoritmi della fisica classica, dentro di noi, invece, il fluttuante e indeterminato, quindi libero, universo modulato da moti quantistici. In effetti il dualismo dentro/fuori (seppure interconnesso) proposto è agilmente sperimentabile empiricamente: muovendoci all’esterno di noi nel regno determinato dagli algoritmi della fisica classica, non c’è spazio per moti anarchici personali, pertanto avevano più che ragione pensatori del calibro di Spinoza, Hume, Schopenhauer e Voltaire nel considerare il libero arbitrio una mera credenza, ma basta cambiare il punto di vista rivolgendolo all’interno, nel regno della coscienza personale, ed ecco che il libero arbitrio appare in tutta la sua evidenza. Dualismo fra il funzionamento del mondo e la nostra rappresentazione del mondo, già proposto da Schopenhauer.

L’indicazione che la nostra interiorità sia modulata, se non proprio da dinamiche quantistiche come sostiene Faggin, perlomeno da dinamiche non deterministiche, mi sembra provata dalla circostanza che per la psiche non c’è un qui e un là, un prima e un dopo, ma tutto fluttua in dimensioni atemporali e non locali, così una persona lontana, addirittura morta, possiamo sentircela dentro, e un fatto remoto può provocarci una emozione presente.

La coscienza viene interpretata da Faggin come l'archè -principio, origine- di ogni ente organico e inorganico, proponendo così una concezione opposta al materialismo riduzionista che interpreta la coscienza un epifenomeno prodotto da segnali elettrici e biochimici[6]. In tutto il volume non è mai riportato il lemma Dio, probabile che Faggin lo consideri usurato e inquinato, viene invece utilizzato con taglio neoplatonico[7] il termine Uno, descritto come emanatore di monadi di coscienza olisticamente[8] interconnesse al fine, da parte dell'Uno, di conoscere se stesso, in questa continua autoconoscenza starebbe il senso e il significato d’ogni essere; Uno altresì generativo di etica solidale perché nell’Uno l’altro sono io. Vista la centralità della coscienza umana, implicita nella teoria, si potrebbero scorgere risonanze di idealismo antropocentrico che vengono, però, superate in quanto l’essere umano non viene collocato in cima a nessuna piramide, ma sarebbe parte di dimensioni più vaste di coscienza che lo precedono e superano.

La teoria di questo panpsichismo quantistico, e la cosmogonia che ne consegue, è ancora in costruzione e i punti di criticità non mancano, ad iniziare da affermazioni che si possono considerare e accettare solo per fede, anche se il testo ha pretese scientifiche. Dalla tesi di una totale autonomia della coscienza personale rispetto al corpo fisico, ossia l’affermazione di un’anima individuale eterna, al problema del male interpretato come una, un po’ bizzarra, disfunzione in qualche passaggio nel processo che l’Uno attua per conoscersi attraverso le unità di coscienza che emanerebbe.

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1 Rammentare le valorose qualifiche umane e professionali dell’autore, fisico geniale e imprenditore coi piedi per terra, potrà risultare utile al lettore per approcciarsi con rispetto e serietà ai capitoli del libro che descrivono sue singolari esperienze mistiche, nonché sue ipotesi spiritualistiche della realtà particolarmente ardite.

2 Che comunque il lettore italiano, glorioso discendente di generazioni che hanno creduto ai più astrusi dogmi cattolici, può tranquillamente accettare per fede o per patto narrativo, dal collasso della funzione d'onda all'entanglemen, ovvero a misteriose correlazioni non-locali tra ancor più misteriosi stati di campo.

3 Per capirci il gascromatografo, che è una macchina costruita e programmata per individuare le sostanze presenti nella materia, può registrare e misurare nella rosa la molecola della sua essenza, ma a differenza di un’entità cosciente non potrà percepirne il profumo. Una cosa è rappresentare una esperienza tutt’altra cosa è viverla: elaborare e stilare menù non è mangiare.  

4 Potremmo parafrasare il Salmo 115, così: 
hanno microfoni a interfaccia digitale e altoparlanti al plasma e non parlano,
 hanno telescopi gamma a raggi X e non vedono,
 hanno antenne radioastronomiche e non odono,
 hanno gascromatografi a spettrometria di massa e non odorano, hanno endoreattori e non camminano.

5 Nel libro viene qui utilizzato il termine seity per dire l’unicità irripetibile di uno specifico ente. Seity potremmo tradurlo con seità da sé, ma seità ha in italiano significato di individualismo più che di identità. Dalle nostre parti i filosofi adoperano il termine quiddità che afferma la specifica singolarità di qualcosa, o ecceità che dice la realizzazione insostituibile e univoca della realtà ultima di un determinato ente.

6 Ricordo di un amico biologo ricercatore universitario, che durante una cena estiva aveva affermato: “L’Ipad è una mia protesi che fa all’istante molte più cose di me e meglio di me”; ossia siamo macchine per di più obsolete. Considerando che se l’amico si fosse trovato al capezzale di un suo caro non si sarebbe comportato come un Ipad, avevo concluso che la sua fosse una boutade da bicchiere di Primitivo in più. Chi ha provato vedere una persona morire -come anche un cane- sa bene che non è la stessa cosa del vedere un orologio che si ferma, tuttavia c’è un imperversante scientismo materialistico che riduce tutto a un mero funzionamento biochimico. Insomma non mancano scienziati e filosofi materialisti che le sparano più grosse dei preti, e pure più brutte in quanto, per dogma o forse per capriccio, ci precludono possibili finalità del cosmo, della natura e nostre, finalità evidenti che percepiamo a pelle. Negli ultimi venti anni ho abbandonato la lettura del Vedanta e del Vangelo per leggere gli articoli filosofici e scientifici di MicroMega e non sempre ho fatto un buon affare.

7 Il padre di Federico Faggin, il filosofo Giuseppe Faggin, ha tradotto in italiano le Enneidi di Plotino.

8 Da notare che il contrario di riduzionismo non è espansionismo ma olismo.

Sabato, 25 Novembre 2023 17:18

Regni e principati

Avevo messo quattro pesci rossi nello stagno, quattro di numero, passati manco due anni erano più di duecento, si sa la natura è fissata con l’esserci, perpetuarsi e crescere, però dopo un tre anni i pesci erano diminuiti a un centinaio e passato qualche tempo erano solo cinquanta. Da tre anni permangono cinquanta, di tanto in tanto un paio di più o di meno per poi ritornare ancora cinquanta in equilibrio con le dimensioni dello stagno.

L’altro giorno nel rendermi conto del processo, ho percepito l’istantanea sensazione di appartenere a un funzionamento affidabile che “sa” bene quello che fa[1]. Per me quell’istante di consapevolezza è stato importante, come sono importanti tante altre esperienze personali che tutti noi facciamo, il problema che non appena le comunichiamo, anche solo a noi stessi[2], forniamo una immagine sbiadita, a volte distorta, di quanto avevamo provato. Alla fine l’evento della percezione individuale immediata è forse ciò che davvero conta, è quella esperienza che ci pervade testa e corpo ma che precede ogni pensiero e parola. Poi, va da sé, che quella esperienza si pensa e ricorda, va da sé che si dice a se stessi e agli altri, talvolta si scrive.

Può anche capitare che le esperienze si pensino e dicano così tanto, che alla fine si pensa e si dice la vita invece di viverla. Nel trasferire un evento dall’esperienza al pensiero e alla parola l’esperienza perde un po’ della sua potenza originaria, già solo il pensarla e ricordarla è rappresentarla, ossia un’altra cosa rispetto all’originale, sì somigliante ma un’altra cosa, dunque dire il ricordo dell’esperienza è una rappresentazione della rappresentazione, scriverlo è rappresentare la rappresentazione della rappresentazione, perché nello scrivere prima traduciamo l’esperienza dell’evento in pensiero, poi traduciamo quel pensiero in parole e per finire quelle parole in segni. Tutto sommato, alla fin fine, parlare e scrivere bene è l’abilità di comunicare, attraverso l’utilizzo-superamento dell’artefatto della parola pensata, detta o scritta che sia, una immagine il meno possibile sbiadita di una certa esperienza.

L’esperienza individuale diretta è come se appartenesse a un certo regno ontologico, il dire e lo scrivere a un altro. Il problema è che se non usciamo dall’ontologia privata della percezione personale siamo condannati a uno stato simile a quello di monadi autistiche, in un regno senza alcun contenimento dove follia e delirio sono leciti, ma se ne usciamo perdiamo la purezza e la potenza dell’esperienza diretta smarrendoci nella Babele del mondo degli uomini, perché l’altro esige comunicazione quindi trasposizione e traduzione. I due regni ontologici sono insieme distinti e interconnessi, come il Giano bifronte non ci resta che viverli entrambi facendoci in due rimanendo uno.

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1 Il funzionamento naturale fa anche metastasi, ma statisticamente produce più omeostasi che metastasi.

2 Ho almanaccato un ragioniere occulto lì a monitorare a tempo pieno il numero di pesci rossi aumentandoli o diminuendoli secondo necessità, demiurgo sì divertente ma che ha immediatamente depotenziato l’esperienza originaria. Forse meditare significa vivere il momento per quello che è evitando di inquinarlo mettendogli le mani (i pensieri) addosso.    

Mercoledì, 01 Novembre 2023 22:09

Questo è dilemma

E’ fiorita la Bidens aurea [un clic sulla foto per ingrandirla], le pennellate centrali giallo neon su fondo bianco non le ha date Dio e neppure un demiurgo, causa di se stesse accadono un po’ per caso e un po’ per legge di natura.

A questo punto davanti alla Bidens passiamo noi, vale a dire nessuno dato che al pari delle piante siamo anche noi prodotti da caso e necessità. Il problema è che da dentro il nessuno che siamo sorge spontanea -chissà come? chissà da dove?- l’immediata autoevidenza di essere qualcuno. Questo qualcuno dice: “Ma che belli ‘sti fiori !” E dicendolo informa la pianta di essere bella. Forse alla indifferente pianta la cosa non interessa, forse la pianta lo sa già d'essere bella, comunque sia non c'è dubbio che noi siamo artefici di una informazione consapevole.

Fuori di noi accade un mondo riducibile a leggi meccanicistiche, invece dentro di noi sorge l’evento di una coscienza individuale consapevole di sé e dell’ambiente, coscienza personale libera e imputabile. Se quardiamo il mondo fuori non c'è alcun io e nessun correlato libero arbitrio, ma non appena quardiamo dentro di noi eccoli sorgere nella loro gloria.

Ma da dove viene fuori questa coscienza personale? That is the question[1]. Senza alcun desiderio di antropocentrismo o nostalgia di un Creatore è la ragione che lo chiede.

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1 Un’ipotesi potrebbe essere che siccome noi siamo coscienti anche la natura potrebbe contenere una specie di proto-coscienza, la teoria è chiamata panpsichismo. E' una teoria antica, in effetti la coscienza come sostrato del mondo, che quindi permetterebbe il manifestarsi della materia (pennellate gialle sulla Bidens incluse) è già affermata nel Vedanta. Se escludiamo la possibilità di un Dio creatore che ci ha muniti di coscienza la cosa sarebbe anche da considerare, il problema è che c’è una diffusa preclusione per certe ipotesi, forse ereditata dal "pretesco" materialismo ottocentesco, che nel suo elidere pezzi portanti di effettività è visione inidonea per spiegare la realtà, ma che come un fiume carsico riemerge di continuo precludendo l'indagare. Mi torna alla mente Carlo Rovelli che nel suo bel libro Elgoland, riguardo la possibilità che la nostra coscienza individuale derivi da una proto-coscienza onnipervadente che ci precede, segava l’ipotesi così: “E’ come dire che, siccome una bicicletta è fatta di atomi, allora ciascun atomo deve essere proto-ciclistico”. Rovelli è una bella persona e uno dei migliori divulgatori scientifici, però per uno che sa perfettamente distinguere e agevolmente districarsi nella complessa ontologia corpuscolare e ondulatoria della realtà, equiparare la coscienza a una bicicletta è cosa piuttosto volgare. Rifiutato il panpsichismo di solito il problema della coscienza non viene considerato se non come epifenomeno. La coscienza viene vista come una specie di accessorio, una sorta di sintomo collaterale che emerge dal cervello, senza però dedurre in che modo la materia di cui il cervello è composto estruda questa strana cosa aliena dall'organo che la produce. Insomma della coscienza non se ne parla e quando se ne parla si balbetta.

Martedì, 24 Ottobre 2023 21:32

Alchimia

Dentro di noi abbiamo il mondo della percezione, dell’incalcolabile immaginazione, il mondo del pensiero che fluttuando elabora fantasie, concepisce idee e recepisce quelle che gli arrivano in sorte. Fuori di noi il mondo della materia, quello del colpo d’ascia del boscaiolo e dell'Apollo 11 con masse e spazi, forze e tempi, sì relativi nondimeno misurabili, prevedibili, duplicabili.

Federico Faggin -quello che ha inventato i microprocessori- afferma, metaforicamente, che il mondo interiore sarebbe di natura ondulatoria perciò quantistico, mentre il mondo esteriore di natura particellare (cioè costituito da atomi e molecole), vale a dire materiale. La differenziazione fra l'ontologia ondulatoria della fisica quantistica e l'ontologia particellare della nostra dimensione quotidiana, potrebbe essere una chiave di interpretazione delle biforcazioni e dei dualismi che hanno caratterizzato la storia della filosofia: sostanza materiale/sostanza spirituale, corpo/anima, materia/forma, esistenza/essenza, fenomeno/cosa in sé, apparenza/realtà, quaggiù/lassù, ecc.. Ontologie differenti quella ondulatoria e quella delle particelle, eppure interconnesse come ci ricorda il Rgveda: “Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda”.

Forniti di mente e di corpo viviamo, dunque, nel dualismo onda/particella, gli introversi preferendo abitare nel mondo ondulatorio interiore, gli estroversi frequentando il mondo particellare esteriore, rischiando entrambi di rimanere intrappolati in bolle e idolatrie: chi si attarda nel mondo quantistico interiore perché corre il pericolo di entrare in bolle intellettualistiche, in idolatrie delle parole, dette e scritte, e delle idee che rappresentano una qualche realtà ma che non sono quella realtà. Chi, invece, si perde nel mondo esteriore delle molecole rischia di sottomettersi alla dittatura della materia, del "Se non vedo non credo", del “Vogliamo fatti non parole”, del “Taci e fai!”

Forse l’arte di vivere sta nell’unificare questi due regni, stile Michelangelo che emana sul duro marmo “La Pietà” che gli fluttua dentro, demiurgo che trasforma l’onda in particella, come anche il fruitore di quell'opera che nel goderne ritrasforma le particelle del marmo in onde che gli fluttuano nell'anima.

Mercoledì, 18 Ottobre 2023 21:15

Cliché

Nell’immaginario collettivo lo stereotipo della persona religiosa è quello di un individuo scuola, casa e chiesa, metà Nonna Papera e metà Grillo Parlante, ma le cose non tornano. Dovrebbero essere più scavezzacollo quelli che hanno fede in Dio di quelli che la fede non ce l’hanno, visto che il credente, fiducioso nella divina provvidenza, è portato a tirare dritto senza freni, alla spera-in-Dio, certo di fare bene grazie alla onnipotente e onnisciente regia sovrannaturale che lo ispira. Viceversa lo scettico miscredente, consapevole che quando si butta in aria la moneta nessuno sa se cadrà testa o croce, è portato alla prudenza, al devoto controllo, alla pia prevenzione, ad attuare tutti quei comportamenti e misure che diminuiscano il rischio di andare a sbattere. Insomma chi non ha fede è portato a essere un bravo ragazzo, a differenza dell’entusiasta in missione per conto di Dio, che tira dritto indifferente alle regole socialmente condivise. Lo stereotipo del bravo ragazzo religioso è, probabilmente, un prodotto delle religioni di Stato caratterizzate da una visione del sacro molto addomesticata.

Quando moralisticamente e frettolosamente si giudicano incoscienti e irresponsabili gli incauti e gli avventati, dai guerrafondai ai toreri, dai mafiosi agli stuntmen, bisognerebbe prima indagare se, e quanto, questo loro agire sia innescato da uno spirito religioso. In fin dei conti non esiste un diavolo che sia ateo.

In contesti urbani succede che qualcuno non si accorga dell’esistenza delle piante, qualcun altro delle stelle: cecità botanica, cecità siderale… Ma visto che tali ciechi non vivono poi peggio degli erboristi e degli astrofili vedenti che s’indignano per queste loro cecità, alla fine va bene così.

Ci sono filosofi che dicono che non si può pensare al di là delle parole che conosciamo, e biologi evoluzionistici che spiegano come il linguaggio aumenta le funzioni del cervello, che così migliorato crea ulteriore e più puntuale linguaggio, che a sua volta stimola il cervello rendendolo ancora più performante, e così via. Ma se le cose stanno solo così, com’è che tutti i giorni incontro contadini pugliesi che pensano incommensurabilmente oltre le quattro parole del dialetto che sanno? E intelligenze artificiali sempre aggiornate di tutte le parole del mondo che non pensano nulla? Il contadino pugliese manifesta un quid, se non ontologicamente autonomo o soprannaturale, comunque emergente, forse precedente, che supera la somma delle parti date dal linguaggio e dall'abilità cerebrale.

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1 Il re del mondo, Franco Battiato, 1985

Martedì, 17 Ottobre 2023 16:54

Già e non ancora

Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà” Mc 8,35

Non appena la coscienza entra in presa diretta nell’istante presente senza, dunque, interpretarlo suggestionata dalla memoria personale, in questa nuda consapevolezza d'essere metri e metronomi non servono più[1].

Forse in questo sottrarci alla misura e alla continuità siamo già un po’ eterni.

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1 Talvolta ottemperiamo misure altre volte le oltrepassiamo, qualche rara volta le trascendiamo ottemperandole, come il monaco che nell'hortus conclusus vede l'infinito, o il percussionista che obbedendo al prevedibile metronomo esterna -chissà da dove?- un mood estroso, o il poeta che grazie alla costrizione metrica espande l'orizzonte.

Mercoledì, 11 Ottobre 2023 14:33

Hortus conclusus

I registi sul set, i bambini che giocano sul piazzale, i preti davanti all’altare, i teatranti sul palco, le rockstar nello stadio, i monaci nel chiostro, i calciatori in campo… 

A un certo punto Homo sapiens ha circoscritto una porzione di spazio e ci è entrano dentro con una intenzione, rendendosi presto conto che più quello spazio era chiaramente delimitato e l’intenzione precisa, e più lì dentro accadevano cose migliori, o più interessanti, di quelle che succedevano fuori.

Martedì, 10 Ottobre 2023 16:40

Chi?

La struttura dell’Io è tanto composita e fluttuante che risulta difficile rintracciare il titolare effettivo[1]. Ma allora, chi nasce? Chi esiste? E chi muore?[2]

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1 Senza necessità di far riferimento a sapienze orientali che ci dettaglino la dualità fra il Sé, ātman, e l'Io, aham, che nel contempo ci costituiscono, o agli eteronimi pessoiani, oppure ai personaggi pirandelliani che ci vivono dentro ognuno con la sua maschera, i suoi bisogni, le sue abitudini, i suoi tic, i suoi dialetti e i suoi gusti, o al teatro humeano della mente, dove l’impressione d’essere qualcuno è prodotta dall’affastellarsi di percezioni che passano e ripassano, scivolano e si mescolano, o ai Giani bifronte, ovvero alle scissioni e alle integrazioni psicoanalitiche e alle tante e diverse subpersonalità che ci abitano investigate dalla psicosintesi, basta e avanza l’osservazione empirica della semplice evidenza che possiamo riflettere pensando ciò che stiamo pensando, o che siamo capaci di un esame di coscienza personale dove parti di noi ne giudicano altre, per avere conferma che non è vero che siamo uno ma eclettiche ed eterogenee complessità. Nonostante un così fragile assemblaggio di numerose parti l’Io di solito non si disintegra, sì di tanto in tanto qualcuno scoppia, ma di solito permane aggregato. Verosimile che il mastice che lo tiene insieme sia la nuda e immediata impressione di essere, quella coscienza che al mattino sorge per forza propria quando ci svegliamo e che sempre ci accompagna, è difficile da percepire perché produce all’istante il pensiero: sono io, sono questo, sono quello, che subito la copre. Questa istantanea, naturale e nuda coscienza di essere, che precede e produce l'Io, l’Advaita Vedanta indiano dice che è un substrato onnipervadente, non è, dunque, prodotta dall'individuo ma è una sorta di campo diffuso che lo precede e ingloba. In filosofia lo chiamano panpsichismo ma dalle nostre parti se ne parla poco.

2 Riflettere sulla morte è riflettere sull'Io.

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