BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Venerdì, 08 Gennaio 2010 09:43

William Congdon

Scritto da  Bruno Vergani

L’ho incontrato a metà degli anni settanta nei Memores Domini, io novizio e lui monaco. A suo dire la mia faccia ventenne assomigliava a quella del Cristo di Manoppello, così m’ha preso in simpatia e da confratelli siamo diventati amici. Meglio amici che confratelli. Meglio emanciparsi da teologismi che assicurano scontata unità per la circostanza d’appartenere alla medesima corporazione.

Bill era appena tornato da una serie di viaggi per il mondo. Qualcuno, piuttosto arguto, aveva suggerito alle autorità monastiche, dalle quali Bill dipendeva, che quell’artista quasi settantenne non poteva comportarsi come gli altri monaci e se avesse perseverato nell’obbedienza, con le rigide modalità che il carisma del gruppo esigeva, sarebbe morto. Morto artisticamente. Le autorità a lui prossime avevano pertanto allargato, per un momento, le maglie della rete ed il leone era uscito dalla gabbia nella quale si era chiuso. Se gli fosse capitato un priore burino e brianzolo con pensiero baldante e prepotente, impedito a sperimentare direttamente la vita ed i suoi movimenti chissà come sarebbe andata a finire, ma forse la provvidenza esiste davvero. Dentro quelle gabbie non nascono artisti ma lui lo era da prima, così agli esercizi spirituali rompeva il silenzio imposto dalla regola per raccontarmi come raschiava i davanzali di Milano per raccogliere lo smog, pigmento materico che utilizzava nei i suoi dipinti. Avevo terminato il noviziato e da monaco lo incontravo con maggior frequenza.

Non ripeteva, non imitava, non ridiceva, dettagliava la sua ultima esperienza; quella di entrare in una abitazione abbandonata dove carnalmente abbracciava, in un continuo infinito presente, chi lì era vissuto secoli addietro. Disegnava le montagne che avevamo davanti senza mai staccare la matita dal foglio per poi regalarmelo. Peccato che nell’andarmene dai Memores, nella foga, abbia lasciato nella mia camera-cella quei segni sacri. I suoi autoritratti: i crocifissi. Un amore così forte che dava un po’ di sofferenza. Un mix di amore e sofferenza. Orfano scendeva nella voragine, giù fino al lago di dolore per contemplare i relitti che galleggiano nel silenzio. Nessun uomo, nessun animale, nessun Dio e nel contempo con un guizzo risuscitava. Metamorfosi di nuclei infernali, di larve nere, di carne morta e viva insieme, da contemplare in silenzio ma che un movimentista cattolico ha appiccicato con lo scotch, in dozzinale replica stampata, sui muri del parlamento di Strasburgo. Lo ha fatto per difendere la presenza dei crocifissi di plastica appesi nelle scuole e nelle mense statali. Gesto basso, osceno. E poi inaspettato un campo di terra grassa con in mezzo uno smeraldo. Mozzafiato.

Non so se la sua fecondità artistica sia stata possibile grazie o nonostante la stringente appartenenza alla Chiesa. Grande lo era prima e grande è rimasto, ma io, per non morire, me ne sono andato. Cinque anni insieme e senza preavviso sono sparito. So che mi ha cercato, ma dalla gabbia non poteva uscire ed io non volevo entrarci. E’ rimasto nella nebbia ed io sono migrato nei suoi posti: India, sud America, Turchia,  nord Africa. Poi un un giorno mi sono trovato a  Providence, ospite dei genitori di una cara amica ricca borghese del Rhode Island e lì mi sono ricordato di lui, ho chiesto e chi mi ospitava era proprio stato suo compagno di classe. Strani sincronismi. L’undici settembre e il quadro di Bill, New York City, explosion, del 1948 che mi ritorna al cuore e sconquassa la pancia. 

Ultima modifica il Sabato, 10 Novembre 2012 13:01

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