BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Sabato, 23 Aprile 2016 08:24

Autobiografia incipit e un po' ancora

Scritto da 

Torno al primo ricordo, nell’osservare il fuoco di una stufa percepivo di esistere. Fuoco d’essere sorto spontaneo non so da dove, non conosco il perché, non so come. Senso di essere che è ancora qui immutato.
E’ l’unico capitale che ho. E' l'unico problema che ho.

Seduto sul seggiolone davanti al tavolo, sul quale mi avevano poi riferito ero nato, ricordo seduti davanti a me mio padre e mia madre, alla destra un amico di mio padre con la faccia da can Bulldog. La madre era potente, il padre un accessorio gradito.
La sera nel dormiveglia avevo visioni della “Nonna Ida” una vecchietta vicina di casa, la immaginavo volare dalla finestra per entrare nel mio lettino, avevo due, forse tre, anni.
La nonna vera quella paterna abitava lì vicino, nello stesso paese, Seregno in Brianza, un posto grigio senza carattere trenta chilometri sopra Milano. Da lì verso nord la pianura era interrotta dalle colline, poi i laghi e le Prealpi.
Suo marito il nonno Umberto era alto, imponente, ex campione di ciclismo, alpino della grande guerra, labbro inferiore sporgente. Molto sporgente. Importava legnami dalla Iugoslavia che vendeva ai falegnami della zona, ricordo il profumo del faggio.
“Mangiare bere e lavorare; prima lavorare poi mangiare e bere” era il suo motto. Il nonno era diventato socialista dopo aver preso uno scappellotto da uno squadrista, perché non si era tolto il cappello e non aveva salutato a braccio teso un gerarca fascista che passava dalle sue parti. Il prognatismo ce l’avevo anch’io, quasi impercettibile ma l’avevo. A volte lo amplificavo spingendo il labbro inferiore all’infuori: l’evocare corporalmente il nonno Umberto mi procurava un senso di stabilità, di forza.
Ogni primavera si approvvigionava di vino dal produttore di fiducia, il camion dell’azienda quello che portava le tavole ai falegnami brianzoli, partiva per la Toscana dove caricava sessanta damigiane di Chianti che terminavano entro la primavera successiva, ma non avevo mai visto il nonno Umberto ubriaco; come un monaco obbediva ad una regola che spesso ripeteva ad alta voce: “Mai bere in solitudine ma in compagnia, mai lontano dai pasti, mai superalcolici.” Era morto ad ottantuno anni cadendo dalla scala che portava in  cantina, si era rotto la testa ma era così forte che ci aveva messo più di un mese a lasciarci. Le sue ultime parole erano state apprezzamenti ad un’avvenente infermiera dell’ospedale; gli avevano staccato i tubi e caricato su un’autoambulanza per portarlo a casa, perché nel reparto di rianimazione necessitavano di posti letto. Era morto nel tragitto, l’avevano scaricato cadavere, la faccia era nivea, non era più il nonno Umberto ma un sacco vuoto. Vuoto di cosa? Cos’era quel quid che prima era dentro quel corpo e poi non c’era più?

Boschetti di robinie, lucertole, grilli, bande con le fionde. A cinque anni ero basso di statura e magrissimo, non mi piaceva tirare sassi ai nemici preferivo fare lo stregone. Avevo un paio di assistenti, il più capace l’avevo soprannominato “Ciulino”, l’avevo scelto perché catturava orbettini, piccole serpi lisce e quasi cieche, che infilava nel naso per farle uscire dalla bocca. Inseriva la testa dell’orbettino nella narice, rapido il rettile penetrava l’orifizio equivocandolo per tana, Ciulino spalancava la bocca, si ficcava l’indice e il pollice in gola, faceva una specie di gargarismo, afferrava da dentro la gola la testa della biscia e tirava. Diceva con voce nasale: “C’è, c’è”. Ammiravo la coda della biscia scomparire dentro il naso di Ciulino mentre la testa usciva dalla bocca. Io mi limitavo a mangiare qualche zampa di cavalletta e formiche.
Quando la banda catturava un nemico ordinavo agli assistenti di tenerlo fermo, così potevo pungerlo con le ortiche e poi impiastrarlo con l’intruglio d’acetosella; mi dava soddisfazione vedere il corpo del prigioniero diventare verde, un piacere intimo di una qualità precisa. Quel piacere era la bussola, la vocazione: vivere quello che mi piaceva. Le montagne là in fondo mi ammonivano che, anche se capace di far verdi i nemici, non ero Dio. Lui era a nord sulle montagne da lì faceva arrivare il vento.

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