
admin
Grandangolo
Questa mattina gli è venuto di vedere lui e il mondo sub specie aeternitatis, sotto l'aspetto dell'eternità. I problemi erano ancora tutti lì, eppure in qualche modo redenti. Questione di punto di vista, d’angolo, di profondità di campo.
Quasi creature d’altra specie
Ho chiesto all’infermiera di farmi le iniezioni, finito il turno in ospedale fa sette chilometri per raggiungermi e me le fa, manco mi conosce bene ma viene a gratis, le viene da fare così nessuno sa perché. Son quelle così[1] che, nonostante i disastri, fanno andare avanti il mondo[2].
_____________________________
1 “Quasi creature d’altra specie” (Leopardi, Pensieri).
2 Forse addirittura, performanti come un dio creatore, producono mondi, come se ontologia e metafisica fossero conseguenza dell’etica e non viceversa.
Mistica del Rock
L’altra sera a distanza ravvicinata da un chitarrista e un batterista in azione, all’improvviso ho visto a cosa “serve” il rock. Serve ad auto trascendersi.
Il pezzo è il mezzo, dinamica e ritmo il passo, Eros la via e i picchi orgasmici tappe del percorso, ma la meta è oltrepassare i limiti personali per fondersi in qualcosa di più grande.
Forse dentro di noi c’è qualcosa, o qualcuno, che sta un po’ stretto nel supporto perituro corporeo e necessita d’uscire -estasi: ex-stasis: “essere fuori”-, o forse consapevoli che non ci siamo fatti da soli vogliamo andare oltre noi stessi, per vedere come e dove è cominciato tutto.
Rapporto problematico
il rapporto problematico fra la nostra capacità di percepire il mondo e la sua realtà, attraversa l’intera filosofia moderna. Rapporto problematico perché, come osservava Kant, per comprendere la realtà adoperiamo i nostri limitati percepire e pensare, con l’insanabile conseguenza che invece di vivere il mondo per ciò che è, lo viviamo come oggetto di una nostra rappresentazione. Dualismo fra il personale pensiero e la realtà del mondo, fra la cosa come (ci) appare e la cosa in sé, che consapevoli dei nostri limiti umani si sarebbe potuto accettare serenamente e chiuderla lì[1], ma che invece una certa filosofia ha cercato di superare in tutti i modi.
Fichte, Schelling e Hegel sono stati i filosofi più inventivi[2] nel cercare soluzioni al dualismo kantiano che ci separa dal mondo. Essi si chiedono: se tutto ciò che conosciamo è mediato dalla nostra mente, ha senso postulare una "cosa in sé" irriducibile alla nostra esperienza? Questo li porta a una revisione radicale della posizione kantiana. Fichte elimina la distinzione tra fenomeno e noumeno e afferma che tutta la realtà è il prodotto dell’attività del soggetto; Schelling sviluppa ulteriormente l’idea di Fichte, sostenendo che vi sia un’identità originaria tra soggetto e oggetto, tra spirito e natura; con Hegel, l’idealismo raggiunge il suo culmine: egli concepisce la realtà come un processo dialettico in cui lo spirito si sviluppa attraverso contraddizioni e sintesi fino a raggiungere l’autocoscienza assoluta. In Hegel, la coscienza non solo conosce la realtà, ma la “crea” attraverso il suo movimento storico e logico.
Filosofie difficili da comprendere che diventano del tutto incomprensibili se si interpretano i termini di “Io” di “Soggetto” e di “coscienza” che utilizzano, come sinonimi dell’io personale. Grazie a una dritta di Augusto Cavadi ho trovato un approccio più semplice e chiaro per comprendere l’idealismo, interpretando questi “Io”, “Soggetto”, “Coscienza" come termini che esprimono un principio assoluto e universale piuttosto che personale, principio che funge sia da fondamento della realtà del mondo che dell’umano pensiero. Un approcciarsi all’"Io" di Fichte, all’Assoluto di Schelling, al Soggetto di Hegel, vedendoli come qualcosa che somiglia al Dio dei panteismi, sostanza universale esistente in sé e per sé che tutto pervade e unifica, e tutto diventa più chiaro.
____________________________________
1 E’ pur vero che da un punto di vista teorico il gap fra realtà oggettiva e personale, potrebbe essere condizione che ci porta a sbattere in ogni momento da tutte le parti. Però c’è da annotare che mentre i filosofi dell’idealismo s’inventano di tutto e di più per superare il dualismo fra noi e il mondo, la gente normale non va a sbattere in ogni momento e da tutte le parti come previsto, ma solo di tanto in tanto, giusto qualche volta qui, qualche volta là, indizio che le loro interpretazioni del mondo non sono poi così difformi dal mondo reale. Persone semplici, consapevoli che non è il mondo a stare dentro di loro, ma che sono loro a essere dentro nel mondo che li precede e che sta in piedi per conto suo, questo gli basta per funzionare.
2 Inventivi, come intendeva Gilles Deleuze: “È molto semplice: la filosofia è una disciplina che crea e inventa come le altre. Crea o inventa concetti. E i concetti non sono già belli e fatti in una specie di cielo dove aspettano che il filosofo li afferri. I concetti bisogna fabbricarli. Certo, non si fabbricano così. Non è che un bel giorno ci si dica “Ecco, ora invento questo concetto!”. Proprio come nessun pittore un bel giorno si dice: “Ecco, ora faccio un quadro così”! o un regista: “Ecco, ora faccio questo film!”. Ci vuole una necessità, in filosofia come altrove, altrimenti non c’è proprio niente. Uno che crea non lavora per suo piacere. Uno che crea fa solo ciò di cui ha assolutamente bisogno”.
In terza persona
Ma com’è che anche se il corpo muta e cambiamo di continuo posti, idee, ruoli, emozioni e sentimenti, rimaniamo comunque noi stessi? Si vede che l’io è un qualcosa di non riducibile al corpo, neppure alla mente e alle emozioni.
Questa identità che precede il nostro pensare, sentire e fare, qualcuno la chiama “sé”[1]; in effetti non è male percepirsi in terza persona, ci si guarda di meno l’ombelico e si diventa più vasti e eterni. Essere in terza persona è un bel modo per staccarci da noi stessi evitando, però, derive nichilistiche.
Verosimile che sia proprio questa natura duale, costituita da ego e sé, a permetterci d’auto-osservarci e riflettere: per essere consapevoli di noi stessi bisogna sdoppiarsi, se fossimo un tutt’uno mica potremmo guardarci dall’esterno, non è escluso sia proprio il sé a renderci consapevoli di essere. Forse è anche il regista che assembla e unifica il molteplice dando un senso alle nostre rappresentazioni del caos.
Potrebbe darsi che Sisifo non avesse sé: in fin dei conti anche senza “fare” il semplice "essere" ha valore intrinseco; il primo significato della vita non è quello di pedalare ma d’essere presenti a noi stessi e agli altri; stare nel presente, consapevolmente, è un obiettivo in sé. Sicuramente ego e sé sono intrecciati, possibile che più uno si allarga più l’altro si stringe, così i cretini hanno l’ego espanso e il sé contratto, viceversa i saggi.
__________________________________
1 Dalle filosofie orientali alla Psicosintesi di Assaggioli, a volte sé lo scrivono in minuscolo altre in maiuscolo.
Naufragar m’è dolce
Da bambino i laghi lombardi con dietro le montagne mi procuravano mestizia e insieme piacere. Perché quello strano mix?
Ripensandoci la mestizia era data dalla sensazione che quel paesaggio affermasse: ero prima di te, continuerò dopo indifferente a te. Il piacere dal constatare che proprio quella solenne indifferenza era all’istante salvifica non appena mi staccavo un po’ da me: era come se quella stabile e bella imponenza attestasse: io sono, l’io te lo sei inventato, e mi assorbisse a sé.
Compresenti, simultanei, opposti
Ce ne sono al mondo di situazioni controintuitive ma che le batte tutte è il nostro esistere, contraddistinto dal desiderio di vivere a oltranza costruendo al meglio cose stabili e durature, nella consapevolezza della nostra fine, della fine di tutti gli altri e dell’impermanenza di ogni cosa. Un bel problema.
Filosofie, religioni e psicologie avrebbero dovuto elaborare percorsi che ci aiutassero a familiarizzare con questi opposti che si compenetrano, considerandoli processi inseparabili che si alimentano reciprocamente, hanno invece preferito interpretarli contrapposti e antitetici, non perché lo siano, ma per conformarli al funzionamento della nostra mente binaria che capisce al volo la circolazione a targhe alterne e aut aut del genere.
Quante gloriose e nobili tradizioni di pensiero poggiano su questa abusiva forzatura, che piega la complessa interconnessione del mondo al nostro dualismo concettuale?[1]
___________________________________
1 L’elenco sarebbe lungo, non mancano però percorsi che non fuggono dall’incomprensibile, percorsi che favoriscono una visione integrata che coglie l'interconnessione e la compenetrazione degli opposti: da Eraclito al Taoismo, dalla Psicologia del profondo alla Scienza delle complessità, da aspetti della filosofia di Spinoza e anche di Nietzsche all’opposizione polare di Romano Guardini… Per citarne alla rinfusa qualcuno.
I mangiatori di patate
Mangiamo una banana e l’energia che ha dentro migra nel cuore, lo fa pulsare e viviamo. “Questo corpo è il prodotto del cibo […] vive a causa del cibo e muore se ne è privo” sentenzia il Vivekacudamani, antico trattato filosofico-spirituale indiano, niente di che, già lo sapevamo che chi non mangia muore.
Però la cosa diventa interessante se consideriamo il trasferirsi dell’energia che, presente nei cibi, migra nei nostri cervelli producendo pensiero. Concezioni orientali colgono in questo processo una sorta di preesistere del pensiero nel cibo, uno strano tipo di calorie che invece di far muovere muscoli produce pensiero e vita che chiamano prana. Pan-pensiero che abita i cibi che mangiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, niente di trascendente, niente di soprannaturale.
In questa spiritualità immanente, in questa religione dei quattro elementi il "Cogito, ergo sum" si dovrebbe ridimensionare non poco, giacché il pensiero non è peculiarità esclusiva dell’individuo ma evento che tutto pervade, però anche se la biochimica ci dice, in accordo con le concezioni orientali, che lo zucchero si trasforma in pensiero ci risulta difficile accettarlo, perché abituati a collocare il pensiero nel mondo delle idee in una dimensione altra e alta, trascendente, in un iperuranio accessibile solo alle anime personali. Qualche buona ragione ce l’abbiamo, mica è facile scorgere pensieri del tipo “Fatti non foste a viver come bruti...” abitare, in nuce, in una patata lessa.
Paradossi
Sforniti di intelletto puro e universale ognuno interpreta il mondo a modo suo, per contenere la Babele dei soggettivismi ci confrontiamo con prospettive diverse e utilizziamo la logica, ossia diffidiamo del nostro percepire per affidarci e conformarci a standard prefissati di inferenze, coerenze e sillogismi validanti che ci sono dati. Non so se la logica sia soltanto un congegno che abbiamo architettato per addomesticare il caos, oppure sia legge intrinseca alle cose; logos che ci precede e struttura il mondo, ordine che abbiamo scoperto e formalizzato. Se la logica fosse soltanto una nostra invenzione, una mera tecnica regolativa generale, la circostanza di ricorrere a essa per vedere e comprendere meglio il mondo produrrebbe un bel paradosso, perché darebbe prova che più siamo noi stessi meno vediamo la realtà, meno siamo noi stessi, conformandoci a meccanicismi standard imposti, più la vediamo; in altri termini più si è qualcuno più la visione del mondo si offusca, più si è nessuno più migliora[1]. Può anche darsi che in prospettiva assoluta, eterna, sia proprio così, però nel frattempo, in questo istante tra nascita e morte, non è poi male essere qualcuno[2].
_________________________________
1 In perfetto stile IA.
2 Forse non è stata una buona idea l’accanirsi di devoti orientali e post-teisti nostrani contro il Dio personale fino a farlo fuori, potevano risparmiarlo, non tanto per lui ma perché cifra della nostra persona.
Linguaggi
Tempo fa avevo visto un video di post teisti sudamericani che si erano inventati una cerimonia simile alla messa cattolica, sostituendo i testi della tradizione liturgica con testi scientifici attinti dall’astrofisica. Risultato bruttino, non un qualcosa di nuovo e credibile ma una misera parodia della messa. Ma com’è che all'interno di schemi rituali se si utilizzano parole mitiche e poetiche, come quelle della messa tradizionale, si produce qualcosa di umanamente vero e credibile, invece adoperando parole scientifiche e reali il messaggio si banalizza? Ricordo che era successa la stessa cosa nel mettere in scena una rappresentazione teatrale. Si trattava del testo biblico di Genesi, intercalato da un mio testo che, estraneo alla rivelazione biblica, indagava l’ipotesi di una possibile esistenza (o inesistenza) di un Creatore, osservando la natura e poggiando sull’umana ragione. Nell’accostare i due testi la cosa inaspettata è che la narrazione biblica invece di uscirne indebolita, perché portata dal confronto con l’altro testo a mostrare la sua fantasiosa sovrastruttura mitico-metafisica, si imponeva, al contrario, autorevole grazie alla sua intrinseca potenza narrativa, mentre il mio testo arrancava nel tenere il passo. Insomma il testo filosofico al confronto con quello liturgico era così misero da non esserci partita. Come non c’è partita al cospetto della morte personale fra i giochetti consolatori alla Epicuro, che constatano che quando noi viviamo la morte non c’è e quando c’è lei non ci siamo noi, quindi non c'è problema, rispetto all'impattante e perlocutorio “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” dell’Apocalisse. Non a caso non c'è ateo di valore che non si sia confrontato con la potenza evocativa e poetica di alcuni libri della Bibbia e dei passi dei vangeli.
Come può accadere che, in certe sfere, ciò che è frutto di fantasia si imponga come realtà, mentre ciò che dovrebbe essere reale, razionale, attuale, appaia se non proprio irreale comunque inconsistente? Consideriamo il rito delle esequie cattolico, non c’è dubbio che sia pura fiction. Però se si facesse uno studio antropologico su lutto e dintorni, verosimile che risulti stimolo effettivo a una proficua elaborazione del lutto proprio quella fiction, rispetto a discorsi razionali e concreti. Non c’è dubbio che siano più veri e affidabili, rispetto alla liturgia dei defunti, un Galimberti che riafferma la nostra condizione mortale, o il teologo progressista che vede salvo il defunto non perché purificato da formule liturgiche, ma in quanto ha accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Ciononostante le drammaturgie liturgiche, religiose o laiche che siano, a differenza del pensiero di Galimberti e del teologo progressista, pur in sé fantasiose e irrazionali diventano potenti e vere se vissute simbolicamente; finzioni che veicolano verità.
Sarebbe bello essere tutti d’un pezzo ma al momento siamo necessariamente doppi, costretti a parlare due linguaggi, nelle loro differenze entrambi corretti nel proprio paradigma. L’importante è non equivocare i due livelli, così da non delirare con linguaggi onirici nel mondo concreto, o vivendo una esistenza priva di qualsiasi trascendere, perché prigioniera di linguaggi adatti solo a misurare e fare di conto. Da una parte il linguaggio della realtà misurabile, dall’altro quello della realtà universale o archetipica, linguaggio simbolico, poetico, che rappresenta idee e concetti al di là di ciò che possiamo concepire con la mente ed esprimere con le parole. Bisognerebbe elaborare una epistemologia che chiedendosi ogni volta: “Di cosa stiamo parlando?” riordini pensiero e linguaggio rispetto ai differenti paradigmi che di volta, in volta, visitiamo. Forse manco serve, anche se pastrocchi dovuti all’equivocare livelli e linguaggi non mancano, il più delle volte è facile distinguere i livelli, come fanno tutti quelli che mettono il fiore alla statua della madonnina nel corridoio dell’ospedale e poi si fanno operare dal chirurgo più capace invece che dal più devoto.