Kant negli ultimi anni del suo percorso affermava e dimostrava che bisogna sempre dire la verità. Non stiamo parlando della verità assoluta, metafisica (e chi mai la sa?), ma morale, riferendoci dunque alle verità contingenti che consapevolemente affermiamo o neghiamo nelle circostanze quotidiane. Anche nel caso estremo -presente nell’immaginario di noi tutti- di nazisti che per trucidarli cercano dei bambini innocenti che abbiamo nascosto nel fienile, alla richiesta dei carnefici: “Dove sono i bambini ?”, Kant accetta come moralmente giusta anche la possibilità di non rispondere, ma se si risponde l’imperativo morale sentenzia che dobbiamo rispondere: “Sono nel fienile”. Per Kant una qualsiasi risposta differente se universalizzata giustificherebbe una falsità generalizzata che inquinerebbe le relazioni e la società, inoltre, a suo dire, il dichiarare sempre la verità ci libererebbe da ogni imputabilità personale, perché delle possibili conseguenze del nostro dire, che peraltro come essere limitati non possiamo conoscere in anticipo con certezza nella loro totalità, è responsabile la verità che abbiamo proferito e non noi, mentre l'artificio della bugia è sempre farina del nostro sacco. Un concettualizzare ineccepibile quello di Kant anche se questo indiscutibile comando della verità evoca per contiguità il sinistro imperativo: “Sono innocente perché ho obbedito agli ordini”. Possiamo provvisoriamente concludere che la vita è un po’ più complessa e molto più fluttuante di un sistema filosofico.
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