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Lunedì, 03 Luglio 2017 13:46

Iperbole

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Nel ruminare parte della filosofia di Fichte e di Schelling e alcuni passaggi di quella di Hegel, mi era venuta addosso una tristezza plumbea e un po’ d’asfissia, per la sensazione di trovarmi in una casa con specchi al posto delle finestre. L’idealismo tedesco nell’intento di superare la concezione kantiana della “cosa in sé” (dogma del mondo-natura), ha gonfiato il pensiero umano fino al punto da porlo a fondamento assoluto della realtà universale: prima l’Io da qui tutte le cose, assolutizzazione tanto audace e paradossale oltre i limiti del verosimile, che per reggere necessitava di argomentazioni davvero complicate, quasi astruse. Per dominare l'angoscia di morte e anche di vita derivante dai limiti e dalla parzialità dell'Io si è disposti a tutto. Anche per Kant l’ “io penso” del soggetto era atto ordinante e legiferante la realtà oggettiva, tuttavia in tale processo il mondo e la natura auto sussistevano per forza intrinseca, indifferenti all’osservatore di turno.

A ben vedere la concezione dell’Io-Coscienza di Fichte e Schelling  creante e strutturante l’intero universo - a modo suo presente anche nel loro "nemico", eppure anch’egli idealista (il mondo è una mia rappresentazione) Schopenhauer - era stata proclamata ben prima da alcuni filoni speculativi d’Oriente, mi riferisco all’Advaita Vedanta dove la Coscienza del cosiddetto Sé, sorta di Io assoluto per certi versi simile al Noûs che dalle nostre parti caratterizzava antiche cosmologie, faceva il mondo. Entità che però era vista, seppur onnipervadente, impersonale. Concezione che non implicava, dunque, il rischio di possibili totalitarismi storici prodotti da ipertrofici Io (divini o umani). Differenza non secondaria in quanto non possiamo escludere che, in Occidente, tra le concause degli sfaceli del Novecento alberghino anche prassi scaturite da bislacche interpretazioni dell’idealismo tedesco.

Ultima modifica il Lunedì, 10 Luglio 2017 07:36
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