Intelligenza impersonale
La nostra intelligenza quotidiana la percepiamo connessa a un "io" personale. Pensare, comprendere, giudicare sembrano sempre atti di un soggetto, di un qualcuno. Siamo figli di una tradizione che, tra ebraismo, cristianesimo e platonismo, ha legato l’intelligenza a una mente cosciente e volontaria, o a una divinità personale. Anche emotivamente, tendiamo a concepire l’intelligenza come intenzionalità, come volontà di attenzione.
Un’intelligenza impersonale ci risulta estranea, incomprensibile. Eppure, la somma degli angoli di un triangolo è sempre 180°, indipendentemente dal fatto che un geometra celeste lo decida, o che qualcuno lo sappia o lo calcoli. Accade per necessità, in modo razionale, impersonale e senza scopo, semplicemente perché la natura del triangolo lo impone. È questa una “razionalità ontologica” intrinseca alla realtà stessa.
Cos'è la liberazione se non il conformarsi a questo ordine delle cose che ci precede e ci fa?
L’equivoco
Il melo sotto la finestra è morto. La sua nascita, la sua crescita, la sua fine: tutto è espressione della potenza impersonale della Natura, che produce e trasforma secondo un ordine eterno. I meli non sbagliano: non si credono altro dalla Natura che li genera. Non si immaginano individui separati. Noi sì. Noi ci pensiamo autonomi, padroni di una vita che, in realtà, ci attraversa. Scambiamo la potenza che ci costituisce per un merito nostro. Ma non ci siamo fatti da soli, né il nostro corpo funziona perché lo vogliamo.
Questo è l’equivoco: ci sentiamo sostanza, mentre siamo modi. Siamo Natura, ma ci pensiamo soggetti.
Un equivoco inevitabile. Perché da un lato sentiamo scorrere nelle vene l’impersonale e eterna potenza generante della Natura, di cui siamo espressione diretta. Dall’altro, combinazioni di caso e necessità ci hanno condotti a sviluppare una coscienza personale intensamente desiderante, con la quale finiamo per identificarci.
Il dramma? Sentiamo un’eco d’eternità, ma la cerchiamo nel posto sbagliato: nell’io, nella memoria, nell’identità personale.
Invece l’eterno è ciò da cui l’io sorge, e a cui sempre appartiene.
Ma potremmo fare diversamente?
Le filosofie orientali ci ammoniscono con facilità a non confondere il sé con l’io, a non identificarci con l’onda, ma con il mare. Ma il punto è che abbiamo le nostre buone ragioni per tenere il piede in due scarpe.
Nel Libro III dell’Etica, Spinoza introduce il concetto di conatus, definendolo così: “Ogni cosa, per quanto sta in essa, tende a perseverare nel suo essere.”
Il conatus è quindi la spinta fondamentale e strutturale di ogni essere a continuare a esistere. Non è un impulso occasionale, ma una legge interna dell’esistenza. È ciò che ogni cosa è, nel suo stesso esistere.
Nel caso dell’uomo, il conatus si manifesta tanto nel corpo quanto nella mente: è la dinamica unitaria del vivere. Quando assume una forma concreta, legata alle emozioni, alle immagini mentali e agli affetti, diventa cupiditas: un desiderio individuale, specifico, situato, brama colorata dalla passione.
La cupiditas è dunque il conatus affettivamente determinato: la nostra tendenza a desiderare secondo ciò che come individui sentiamo e immaginiamo — spesso senza piena consapevolezza.
Questa è la condizione dei Sapiens, specie se occidentali: un’ambiguità inestinguibile.
A tratti la superiamo — nel sonno profondo, quando ci dimentichiamo di noi; nei momenti epifanici di eco-appartenenza; negli improvvisi picchi intuitivi, quando per un istante vediamo come stanno realmente le cose.
Turnover serrato
Trasportavano un vecchio malandato al pronto soccorso. Guardavo la busta di urina agganciata alla sua sedia a rotelle, e una voce dentro di me diceva: "Finirai uguale. Hai solo il peggio davanti."
Per correggere quella predizione, mi venne da infilare me e il vecchio dentro il sistema di Spinoza: la natura (o Dio, o sostanza), che nel suo porsi necessario implica il simultaneo esserci di infiniti modi. Sassi di fiume, satelliti di Giove, ramarri, esseri umani. Io e lui.
Tutto, nel suo esistere, ha una natura paradossale: siamo espressioni dirette della potenza eterna della natura naturans, e al tempo stesso, fragili elementi della natura naturata, trascinati dal divenire. Eterni e transitori insieme. La stessa necessità che ci fa esistere ci consegna al turnover inesorabile di ciò che nasce, cambia, si dissolve, per poi in qualche maniera ricomporsi ancora.
La voce aveva ragione solo a metà: vedeva il turnover serrato, ma non la sua eterna causa.