DNA culturale
Ci sembra di vedere il mondo capaci di cogliere il “vero” e il “reale”, invece lo vediamo filtrato dai nostri sensi e mediato dalle tradizioni culturali d’occidente[1]. Ereditarietà culturale tutto sommato vantaggiosa, pur con tutti i disastri che abbiamo prodotto qualcosa di buono l’abbiamo anche fatto. Però non sarebbe male accorgersi d’essere intrinsecamente condizionati[2], al punto che pensare con la propria testa è forse opzione impraticabile. Oltre che accorgerci della connaturata connessione con questo DNA culturale, non sarebbe male provare di tanto in tanto a reciderlo, giusto per aprire un momento la finestra e vedere che succede davvero là fuori, senza filtri e senza interpretazioni.
Ma come? Una qualche incursione nel pensiero orientale o sciamanico potrebbe regalarci spunti utili. Nel caso il condizionamento non si sia incistato troppo in profondità, si potrebbe provare a superarlo esercitando una fantasia estrema, oppure ingurgitando sostanze psicotrope così da bypassare la dicotomia soggetto-oggetto, o in alternativa praticare sport estremi che liberino in noi tantissima adrenalina fino al punto da trascenderci. Forse funziona meglio fare esperienza immediata e non mediata della realtà naturale, va bene la contemplazione di una montagna, di una rana, di una foglia. Però soluzione eccellente per uscire dal connaturato condizionamento è morire.
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1 Sia il punkabbestia che l’impiegato di livello ottemperano inconsapevolmente griglie concettuali e tassonomiche che derivano, in modo diretto o tortuoso, dalle idee platoniche o dal Dio creatore della tradizione giudaico-cristiana, dall’Io penso dunque sono di Cartesio o dagli idealismi ottocenteschi, e così via.
2 Filosofi come Nietzsche, Heidegger e Derrida (con tutti i teorici della decostruzione), hanno evidenziato la natura storicamente e culturalmente condizionata del nostro pensiero.
Gap
L’editing genomico che permette di correggere errori genetici c’è da pochissimo tempo, e lo smartphone uscito quest’anno funziona meglio di quello dell’anno scorso. Si sa, scienza e tecnologia vanno sempre avanti, progresso lineare e costante, cumulativo e irreversibile. Assuefatti da questo miglioramento ci può sembrare che tutte le cose progrediscano così, e invece per la politica, la filosofia, le arti, l’etica, insomma per tutto ciò che non è scienza e tecnologia in senso stretto, il discorso si complica.
Anche se per tutte queste cose non è semplice individuare criteri di valutazione univoci, oggettivi e condivisi, per determinarne il miglioramento, possiamo comunque essere tutti d’accordo che è oggi infrequente incontrare in piazza un Socrate, uno Spinoza o un Kant, rari anche i Michelangelo e i Beethoven e passeggiando nei giardini pubblici non è facile incrociare un Seneca o un Confucio. Esperienza plastica che alcune intuizioni del passato possono risultare insuperabilmente più profonde di quelle contemporanee.
Studiando la storia vediamo sì un progresso scientifico costante, ma accompagnato da un miglioramento umano intermittente, fragile, tortuoso, sparpagliato, ciclico, con l’improvviso e raro apparire di pensatori che raggiungono vette di pensiero e di vita irraggiungibili, intercalati da lunghi periodi di mediocre e bassa levatura diffusa, e anche di stasi e di regressione, basti considerare l'Olocausto che segue all’Illuminismo. Scostamento pericoloso quello fra le anime e la tecnologia che potrebbe mettere nelle mani di un primitivo la bomba atomica.
Si potrebbe forse azzardare che i rari individui capaci di picchi insuperabili di genio, vivano in una dimensione universale atemporale, capace di abitare l’immanente Sub specie aeternitatis. Italo Calvino scriveva: “Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani”. Dopo tutto la periodizzazione storica è un nostro arbitrio, una costruzione concettuale per ordinare il passato così da interpretarlo, una narrazione selettiva, un costrutto culturale, anche se di fatto non esiste una scansione del tempo insita nella realtà. Forse il genio è tale perché capace di abitare il continuo-infinito-presente.
Estromissioni fatali
Ma com’è che ci siamo ridotti così? Per capirci qualcosa ho provato ripercorrere la storia della filosofia moderna[1], per concludere che prima c’era Dio poi è morto e l’Io ne ha preso il posto. E la Natura? Perlopiù estromessa[2], talora annichilita, e da Dio e dall’Io. Forse il problema sta tutto qui.
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1 Grazie al saggio “Dio, uomo e mondo”, nella metafisica da Cartesio a Nietzsche. Traduzione e cura di Orlando Franceschelli; Donzelli editore.
2 Non mancano filosofie che dal XVII secolo in poi hanno affermato, in modi differenti, il primato della Natura, dal Panteismo rigoroso e necessitarista del Deus sive Natura, al Naturalismo razionale, all’Evoluzionismo ecc.. Concezioni abili nel produrre proprie ontologie (natura dell'essere), epistemologie (conoscenza della realtà), metodologie (studio della realtà), e anche proprie etiche in quanto, consapevoli di essere noi una piccolissima parte della natura, evitiamo di perderci in derive di tracotanza; consapevoli di stare tutti sulla stessa barca tendiamo a essere solidali, tra di noi e con ogni essere vivente. Ma oggi che rimane di tutto questo? Fuori da qualche eccezione probabilmente poco. Rimane, come fenomeno diffuso, l’ideologia green, non sempre fondata su una riflessione filosofica di ampio respiro: fenomeno sociale che sovente si limita a un mero attivismo su obiettivi circoscritti e semplicistici, incapace di proporre ontologie, epistemologie, buone metodologie ed etiche proprie.
Cosa si prova a essere un pipistrello?*
L’immediato constatare di non sapere ci spinge a indagare, indaga oggi, indaga domani, si conoscono tante cose mentre altre ci restano sconosciute[1], così dopo una vita trascorsa a imparare e conoscere si raggiunge la meta di un consapevole e informato sapere di non sapere. Conscio e informato, per questo ben diverso dal non sapere di partenza. Questa consapevolezza è uno stato strano che può annichilirci se ci abbarbichiamo a noi stessi, però staccandoci un po’ da noi questo conscio non sapere può generare una conoscenza potente e una libertà inedita, il socratico sapere di non sapere apre a certezze che non sappiamo concettualizzare e dire eppure sentiamo. Forse perché c’è una parte di noi che sa ma non rivela, come quando, lì per lì, ci dimentichiamo un nome ma sappiamo d’avercelo dentro, o forse questo non sapere ci rassicura perché ci emancipa dalla condizione e dalla portata dei Sapiens, con le loro limitate esperienze soggettive e i loro esigui codici del sapere e del non sapere[2].
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*Il titolo l’ho preso in prestito da Thomas Nagel.
1 Che sono poi le cose fondamentali: “Perché esiste qualcosa invece di nulla?”; la realtà è davvero come la percepiamo? Viviamo in una simulazione? Esiste una realtà oggettiva o tutto è filtrato dalla nostra mente? Cosa significa essere coscienti? Come può la materia (il cervello) dare origine a pensiero e coscienza? La coscienza è solo un'illusione o un fenomeno reale? Abbiamo veramente il libero arbitrio? Esiste un significato oggettivo della vita? La vita ha un senso intrinseco o siamo noi a dovergliene dare uno? Esiste Dio o un qualcosa che gli somiglia? Cosa accade dopo la morte? La coscienza sopravvive in qualche forma o si spegne completamente? I numeri e le leggi matematiche esistono indipendentemente da noi? La moralità è oggettiva o soggettiva? E le tante rimanenti domande.
2 Che si prova a essere un pipistrello? E a essere un Sapiens? Il pipistrello sa il mondo eco-localizzandolo noi concependolo, sapere parziale quello del pipistrello, sapere parziale il nostro.
Uno e triplice
Il monaco erborista è tipo enigmatico e sfuggente, fra Dio, Io e Natura non si capisce in che direzione si muova, la verità è che neppure lui sa da che parte andare.
Da giovane tutto gli era chiaro: il Creatore aveva fatto lui e la natura e le piante medicinali erano la farmacia del Signore, ma senti il fetore diabolico di una pianta velenosa oggi, ingurgita l’alcaloide di una pianta psicotropa domani, di quelle buone, di quelle che in un sol colpo azzerano Io e Dio, ha fatto esperienza che la natura sta in piedi per forza sua, che Dio è una invenzione dell’Io, e che l’Io è qualcosa di nebuloso e impermanente.
Ancora pensa a un continuo correlarsi di Dio, Io e Natura, ma nell’esperienza plastica del trasformare piante officinali, sperimenta invece l’incessante autoperpetuarsi del sommo funzionamento naturale, che tutto fa e incorpora.
Grandangolo
Questa mattina gli è venuto di vedere lui e il mondo sub specie aeternitatis, sotto l'aspetto dell'eternità. I problemi erano ancora tutti lì, eppure in qualche modo redenti. Questione di punto di vista, d’angolo, di profondità di campo.
Quasi creature d’altra specie
Ho chiesto all’infermiera di farmi le iniezioni, finito il turno in ospedale fa sette chilometri per raggiungermi e me le fa, manco mi conosce bene ma viene a gratis, le viene da fare così nessuno sa perché. Son quelle così[1] che, nonostante i disastri, fanno andare avanti il mondo[2].
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1 “Quasi creature d’altra specie” (Leopardi, Pensieri).
2 Forse addirittura, performanti come un dio creatore, producono mondi, come se ontologia e metafisica fossero conseguenza dell’etica e non viceversa.
Mistica del Rock
L’altra sera a distanza ravvicinata da un chitarrista e un batterista in azione, all’improvviso ho visto a cosa “serve” il rock. Serve ad auto trascendersi.
Il pezzo è il mezzo, dinamica e ritmo il passo, Eros la via e i picchi orgasmici tappe del percorso, ma la meta è oltrepassare i limiti personali per fondersi in qualcosa di più grande.
Forse dentro di noi c’è qualcosa, o qualcuno, che sta un po’ stretto nel supporto perituro corporeo e necessita d’uscire -estasi: ex-stasis: “essere fuori”-, o forse consapevoli che non ci siamo fatti da soli vogliamo andare oltre noi stessi, per vedere come e dove è cominciato tutto.
Rapporto problematico
il rapporto problematico fra la nostra capacità di percepire il mondo e la sua realtà, attraversa l’intera filosofia moderna. Rapporto problematico perché, come osservava Kant, per comprendere la realtà adoperiamo i nostri limitati percepire e pensare, con l’insanabile conseguenza che invece di vivere il mondo per ciò che è, lo viviamo come oggetto di una nostra rappresentazione. Dualismo fra il personale pensiero e la realtà del mondo, fra la cosa come (ci) appare e la cosa in sé, che consapevoli dei nostri limiti umani si sarebbe potuto accettare serenamente e chiuderla lì[1], ma che invece una certa filosofia ha cercato di superare in tutti i modi.
Fichte, Schelling e Hegel sono stati i filosofi più inventivi[2] nel cercare soluzioni al dualismo kantiano che ci separa dal mondo. Essi si chiedono: se tutto ciò che conosciamo è mediato dalla nostra mente, ha senso postulare una "cosa in sé" irriducibile alla nostra esperienza? Questo li porta a una revisione radicale della posizione kantiana. Fichte elimina la distinzione tra fenomeno e noumeno e afferma che tutta la realtà è il prodotto dell’attività del soggetto; Schelling sviluppa ulteriormente l’idea di Fichte, sostenendo che vi sia un’identità originaria tra soggetto e oggetto, tra spirito e natura; con Hegel, l’idealismo raggiunge il suo culmine: egli concepisce la realtà come un processo dialettico in cui lo spirito si sviluppa attraverso contraddizioni e sintesi fino a raggiungere l’autocoscienza assoluta. In Hegel, la coscienza non solo conosce la realtà, ma la “crea” attraverso il suo movimento storico e logico.
Filosofie difficili da comprendere che diventano del tutto incomprensibili se si interpretano i termini di “Io” di “Soggetto” e di “coscienza” che utilizzano, come sinonimi dell’io personale. Grazie a una dritta di Augusto Cavadi ho trovato un approccio più semplice e chiaro per comprendere l’idealismo, interpretando questi “Io”, “Soggetto”, “Coscienza" come termini che esprimono un principio assoluto e universale piuttosto che personale, principio che funge sia da fondamento della realtà del mondo che dell’umano pensiero. Un approcciarsi all’"Io" di Fichte, all’Assoluto di Schelling, al Soggetto di Hegel, vedendoli come qualcosa che somiglia al Dio dei panteismi, sostanza universale esistente in sé e per sé che tutto pervade e unifica, e tutto diventa più chiaro.
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1 E’ pur vero che da un punto di vista teorico il gap fra realtà oggettiva e personale, potrebbe essere condizione che ci porta a sbattere in ogni momento da tutte le parti. Però c’è da annotare che mentre i filosofi dell’idealismo s’inventano di tutto e di più per superare il dualismo fra noi e il mondo, la gente normale non va a sbattere in ogni momento e da tutte le parti come previsto, ma solo di tanto in tanto, giusto qualche volta qui, qualche volta là, indizio che le loro interpretazioni del mondo non sono poi così difformi dal mondo reale. Persone semplici, consapevoli che non è il mondo a stare dentro di loro, ma che sono loro a essere dentro nel mondo che li precede e che sta in piedi per conto suo, questo gli basta per funzionare.
2 Inventivi, come intendeva Gilles Deleuze: “È molto semplice: la filosofia è una disciplina che crea e inventa come le altre. Crea o inventa concetti. E i concetti non sono già belli e fatti in una specie di cielo dove aspettano che il filosofo li afferri. I concetti bisogna fabbricarli. Certo, non si fabbricano così. Non è che un bel giorno ci si dica “Ecco, ora invento questo concetto!”. Proprio come nessun pittore un bel giorno si dice: “Ecco, ora faccio un quadro così”! o un regista: “Ecco, ora faccio questo film!”. Ci vuole una necessità, in filosofia come altrove, altrimenti non c’è proprio niente. Uno che crea non lavora per suo piacere. Uno che crea fa solo ciò di cui ha assolutamente bisogno”.
In terza persona
Ma com’è che anche se il corpo muta e cambiamo di continuo posti, idee, ruoli, emozioni e sentimenti, rimaniamo comunque noi stessi? Si vede che l’io è un qualcosa di non riducibile al corpo, neppure alla mente e alle emozioni.
Questa identità che precede il nostro pensare, sentire e fare, qualcuno la chiama “sé”[1]; in effetti non è male percepirsi in terza persona, ci si guarda di meno l’ombelico e si diventa più vasti e eterni. Essere in terza persona è un bel modo per staccarci da noi stessi evitando, però, derive nichilistiche.
Verosimile che sia proprio questa natura duale, costituita da ego e sé, a permetterci d’auto-osservarci e riflettere: per essere consapevoli di noi stessi bisogna sdoppiarsi, se fossimo un tutt’uno mica potremmo guardarci dall’esterno, non è escluso sia proprio il sé a renderci consapevoli di essere. Forse è anche il regista che assembla e unifica il molteplice dando un senso alle nostre rappresentazioni del caos.
Potrebbe darsi che Sisifo non avesse sé: in fin dei conti anche senza “fare” il semplice "essere" ha valore intrinseco; il primo significato della vita non è quello di pedalare ma d’essere presenti a noi stessi e agli altri; stare nel presente, consapevolmente, è un obiettivo in sé. Sicuramente ego e sé sono intrecciati, possibile che più uno si allarga più l’altro si stringe, così i cretini hanno l’ego espanso e il sé contratto, viceversa i saggi.
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1 Dalle filosofie orientali alla Psicosintesi di Assaggioli, a volte sé lo scrivono in minuscolo altre in maiuscolo.