BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Sabato, 28 Gennaio 2017 21:50

Andarsene

Andarsene”, con sottotitolo “Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui” è un libro di Augusto Cavadi, minuto per dimensione imponente nel contenuto, che affronta la non semplice tematica del titolo offrendo all’elaborazione del lettore differenti concezioni e strategie di pensiero e azione all’ineludibile evento che incombe su tutti i vivi.

All’accadimento della morte soggettiva c’è chi opta per il silenzio, una sorta di provvisoria rimozione fintantoché l’inevitabile dato gli irromperà tra capo e collo. Viceversa c’è chi «per mestiere e per passione» affronta filosoficamente la questione, approccio, quest’ultimo, che ha prodotto nella storia dell’umano pensiero molteplici e differenti concezioni che l’Autore perlustra e illustra stringato ma preciso, con taglio prevalentemente pratico (filosofia-in-pratica), ovvero con l’intento, alla larga da intellettualismi, d’offrire sollecitazioni utili al lettore, stimoli che possa addentare con piacere e vantaggio nel concreto, quotidiano, vivere.

Il ventaglio di concezioni analizzate inizia da quella che vede la domanda sulla morte come strutturalmente insensata; mera perdita di tempo per un pseudo-problema; di fronte alla morte «non resta più domanda alcuna: e appunto questa è la risposta» (primo Wittgenstein). Silenzi per nulla banali sui quali, però, il “libriccino” non tace simpatetico, ma tende a coglierne il significato nascosto per «esplicitarne le valenze» (Kierkegaard). Lo fa attraverso Pascal che interpreta tali silenzi, seppur sofisticati, rimozioni: «Gli uomini non avendo potuto guarire la morte […] hanno risolto, per vivere felici, non pensarci»,  dove non pensarci significa perlopiù strategie atte a divertirsi - inteso etimologicamente: volgersi altrove -, magari, insiste Pascal, intrattenendosi a caccia di lepri, non tanto per portare a casa il cadavere del minuto mammifero con le orecchie lunghe, che manco vorremmo regalato, «ma per il trambusto [l’atto del cacciare] che ci distoglie da quel pensiero [l’umana caducità] e da quel pensare».

Un po’ semplicistico? Cavadi non lo esclude appurando che anche chi, invece di distrarsi cacciando lepri, s’impegna in presa diretta nello spaccare il capello in quattro riguardo il morire, in fin dei conti non sia riuscito dare risposte conclusive. Persino «il Buddha sembra voler prescindere del tutto da queste questioni ‘fondamentali’» (Panikkar). A questo punto l'Autore chiede: «difficile sottrarsi al fascino di queste suggestioni: ma non è troppo sottile il confine tra il silenzio che trascende la domanda sulla morte e il silenzio che la elude?» Occorre audacia per non volgere lo sguardo da un’altra parte, coraggio che Leopardi ha tragicamente, al di là delle conclusioni (personale anelare alla "cosificazione" per non soffrire), testimoniato nel metodo, sia poeticamente che filosoficamente.

A metà del breve saggio si accenna a un’indagine speculativa del morire, dove tra le righe ci è parso cogliere un’evidente differenza tra l’accadimento dello specifico morire di un individuo reale, da quello de La Morte con l’articolo determinativo, intesa come sommo ente annichilente la realtà; La Morte vista da Epicuro come «un fantasma, un non-ente, qualcosa che non esiste». Il punto è che Epicuro interpreta non-ente oltre a La Morte pure il soggetto defunto: «per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci [più]». Fuori le prove, Epicuro! Ma le prove sono deboli, più consistenti gli indizi che indicano altre possibilità, a iniziare da quelle enunciate da Pirandello, che vede albergare nell’uomo un quid che anela al «di più», indizio che l’uomo trascende il suo apparato somatico. Così anche per Sciascia, che risponde alle raccomandazioni dell’amico razionalista: «Vivi più che puoi perché di vita ne abbiamo una sola» con la seria battuta, non meno razionale, «Perché sei così sicuro? […] Forse ci sei già stato nell’aldilà e sei tornato?». Come anche le ipotesi di Umberto Eco che scorgono una diretta analogia tra l’umana anima immortale e le sequenze di messaggi che nell’universo elettronico migrano, da supporto a supporto, rimanendo esse stesse. Fino ai classici, dove Platone vede addirittura nel cessare della vita corporea una sorta di guarigione e di recupero dello stato originario.

Nella storia del pensiero che ha indagato, fin dalle origini, il penoso accadimento del personale morire, un dato appare irreprimibile: «ogni ente determinato viene dall’indeterminato e, “secondo necessità”, deve tornare nell’indeterminato.» Da Hölderlin a Teilhard de Chardin, dal naturalismo alla filosofie d’Oriente, si canta tale sommo Funzionamento.

Che tale Funzionamento - sorta di panteismo fagocitante l’individuo - sia Dio? Finanche il Dio della Bibbia? Non possiamo escluderlo a condizione di interpretare l’umano Io mortale (antoprocentrismo, soggettivismo idealistico) coincidente col peccato originale, concezione non esente da rischi di ambiguità che Cavadi coglie nel teologo Drewermann. Messaggio biblico che, agli antipodi, può essere interpretato, nel solco del giovane Hegel, come valorizzazione, in ottica cristiana, di ogni soggetto umano fino alla divinizzazione personale del singolo: «Ogni idea di una differenza di essenza fra Gesù e coloro in cui la fede in lui è divenuta vita e in cui è presente il divino, deve essere rimossa» ma siccome, continua Hegel, «Là dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 10,41), mette in guardia dal delirio di una esaltazione pantocratrice del soggetto che autistico si ergerebbe glorioso sopra tutta la realtà, pertanto precisa: «Gesù si dichiara contro la personalità». Concezioni teoretiche che seppur accattivanti non reggono, ai nostri giorni, il confronto con l’esegesi storico-critica della Bibbia e dei Vangeli, infatti Cavadi ci ricorda che la Bibbia senza mai rilevare o asserire la presenza di una qualche "scintilla divina" infusa nell'uomo «considera ogni singolo individuo umano come “carne” […] nella sua concretezza storica e nella sua fragilità ontologica», dove «la vita è dunque un’avventura personale che da un Dio “personale” origina». Se le cose stanno così, visto il rapporto tra persone vive, umane o divine che siano, tutto permarrebbe aperto, non sistematizzabile e neppure programmabile.

Prevedibili permangono invece numerosi modelli del post moderno poggiati sul nichilismo esistenzialistico, da Brecht a Celan, da Sartre a Morin autore della giaculatoria: «Siamo perduti», tanto devoti al dio “Nulla” da rasentare la mistica.

Il libro termina con indicazioni di lettura, valorizzando testi di operatori sanitari (Heath, Vitullo), che della morte hanno rendicontato la quotidiana esperienza ravvicinata. L’input è dato, che il lettore elabori.

Andarsene, Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui;
Augusto Cavadi, Diogene Multimedia.

Pubblicato in Recensioni
Venerdì, 27 Gennaio 2017 10:52

Già fatto

Morte individuale incombente? Nessuna preoccupazione in quanto iniziando a contare dalla comparsa dell'universo fino al momento della nascita individuale, risulta che abbiamo già trascorso più di dieci miliardi d’anni di pacifica morte personale. Davvero navigati e abituati.

Spiritosaggine? Mica tanto, il dato è innegabile.

Pubblicato in Pensieri Improvvisi
Mercoledì, 25 Gennaio 2017 10:21

La coppia

L’emozione del sentire vivo, tenero e devoto attaccamento verso qualcuno non mi ha portato nulla di buono.

Meglio allearsi in un patto di buon lavoro che piaccia a entrambi e, per quanto possibile, utile per qualcun altro.

Pubblicato in Frammenti Autobiografici
Martedì, 24 Gennaio 2017 19:56

La stufa

Peperoni fritti a cena ed ecco in rapida successione l’abbiocco e il sonno profondo dove sogno mio padre morente, siccome gli fa male lo stomaco preparo una tisana, ma nel farla realizzo che papà è morto da tempo e il mal di stomaco mica può averlo; morire è scocciante però ti fa passare il mal di stomaco.

Passo dall’inconscio al subconscio quel giusto che basta per capire che il mal di stomaco è tutto mio, finalmente conscio considero che se proprio volessi pregare qualcuno per farmi lenire la sofferenza opterei per mio padre morto invece che per Dio. Non possiamo escludere che un padre biologico ci ascolti anche da morto, non come quell’altro che glissa pure su Auschwitz, forse perché indifferente, forse perché non esiste, forse perché ne è il mandante occulto.

Alcune teodicee esaltano il dolore, dicono che è proficuo nell’economia salvifica universale, così si sono inventati  una stufa che va a sofferenza. Piazzata sulla terra scalda il cielo sempre in debito di combustibile al punto che manco la passione di Gesù Cristo è riuscita a soddisfarla. Irrilevante se alimentata con sofferenza meritata o ingiusta o assurda, l’importante è caricarla a oltranza. Insaziabile è onnivora, va a pellet, legna, cippato, bioetanolo e petrolio, uno vale l’altro, la chiamano “sofferenza vicaria”.

Pubblicato in Frammenti Autobiografici
Giovedì, 19 Gennaio 2017 18:54

Sistematica per paradigmi

Un amico di Martina Franca m'aveva raccontato di suo padre che nella seconda guerra mondiale era sopravvissuto alla tragica ritirata dal Fronte orientale. Nella steppa russa si era rifugiato stremato sotto un carro e quasi assiderato gli era apparso un enorme cavallo bianco con sopra san Martino che brandendo la spada gli ordinava di rialzarsi per riprendere la marcia verso casa. In mezzo alle nevi sovietiche poteva anche apparirgli un qualche santo russo come salvatore oppure Shiva, invece gli era apparso Martino di Tours vescovo cristiano del IV secolo patrono del suo paese in Puglia. Ovvio che al militare martinese sia comparso san Martino invece di Shiva, ciò nonostante ovvietà ricca d’inaspettati sviluppi tutti da approfondire. Propongo qualche spunto di lavoro.

«Il mondo è la mia rappresentazione» nondimeno tale rappresentazione non è sempre e solo propriamente “mia” - con “mia” intendo di soggetto sovrano che interpreta in assoluta autonomia la realtà -, in quanto la personale interpretazione si muove, sviluppa e attua, all’interno di uno specifico paradigma di riferimento che struttura il nostro pensare e determina linguaggi, direzioni, orizzonti. Le conseguenze appaiono rilevanti, per esempio nel rapporto tra un appartenente al paradigma copernicano, che vede al centro dell’universo il sole, e un esponente del paradigma tolemaico, che vede invece la Terra immobile al centro dell'universo con tutto il resto che ruota intorno, sarà preclusa la reciproca comprensione posto che non terranno conto del differente regno concettuale e distinto universo nel quale si muove l’altro interlocutore. Siccome i paradigmi valgono, oltre che per le meccaniche celesti, anche per il vivere concreto di ciascuno, opportuno conoscerli a iniziare dai nostri, registi intransigenti quanto sconosciuti, evitando di fagocitare nei personali paradigmi quelli degli altri. Oltre a una più chiara visione di noi stessi nel rapporto con gli altri, tale approccio risulterà utile per lo studio e la comprensione della storia e di qualsiasi disciplina; in fin dei conti quasi tutto si muove onorando paradigmi.

Oltre a Jung, che individuava nell’'inconscio personale «forme a priori» collettivamente innate, veri e propri approcci sistematici per paradigmi sono stati implementati da Thomas Samuel Kuhn per la filosofia della scienza e da Hans Küng per la teologia; quest’ultimo, grazie ad una classificazione sistematica per paradigmi, affronta la storia delle Chiese cristiane e delle religioni chiarendo ingarbugliate questioni e risolvendo equivoci e incomprensioni; a mo’ d’esempio l’insensatezza di entrare a gamba tesa nel post moderno col paradigma medievale-controriformistico; «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi.»

Il paradigma in quanto regno concettuale universale e autonomo differisce dal concetto di modello inteso come prototipo, esempio, stile, atteggiamento, ecc., modello che quand’anche unico e originale permane, in ogni caso, subordinato al paradigma che lo contiene e genera. Osservo stranieri che vivono in Italia parlando italiano ma che quando sotto stress sparano imprecazioni in lingua madre, così un salernitano convertito all’induismo vestito all’indiana che recita mantra seguirà un modello indù, ma i paradigmi che lo costituiscono permarranno italici. Vale anche per il soprano giapponese che canta Puccini e pure per il novello seminarista cattolico zambiano nel quale sangue scorre più animismo che Concilio Tridentino.

«Tu vuo' fa' ll'americano
Mericano, mericano
Ma si' nato in Italy!
Sient' a mme: nun ce sta niente 'a fa'
Ok, napulitan!»

Contaminazioni perlopiù utili, tuttavia ancor più proficue se consapevoli. Va precisato che anche i paradigmi seppur concezioni onnicomprensive, autosufficienti e universali talvolta s’incrociano, accavallano e compenetrano.

Chissà se, in qualche modo, il DNA veicola paradigmi? Forse il paradigma più diffuso e tenace è quello preistorico premorale, latente quanto potente, paradigma ancestrale tenuto a bada da altri paradigmi più recenti fondati sulla razionalità, ma basta una svista e si erge in tutta la sua gloria, uccide a colpi d’ascia, butta acido negli occhi.

Pubblicato in Filosofia di strada
Martedì, 17 Gennaio 2017 10:33

Che faccia lei

Hans Küng alla fine della sua autobiografia descrive la speranza di entrare, con la morte del corpo, nel cuore glorioso della realtà. Non escludendo che, viceversa, potrebbe anche entrare nel nulla[1], considera quanto tale speranza gli abbia di fatto permesso una vita migliore comunque vadano le cose.

Anch’io non so. Scommetto e punto tutto su un dato: sulla potenza che mi ha permesso - senza che io facessi nulla - di esserci con gli altri nel mondo. Fin qui ha fatto bene, che faccia lei.

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1 Dopo una lunga esistenza d’intensa e valorosa indagine della vita, dell’uomo e su Dio, che pochi potrebbero eguagliare, davvero ammirevole l’aver raggiunto posizioni di dubbio sereno (possibilità), invece di stereotipate certezze esaltate o disperate.

Pubblicato in Sacro&Profano
Sabato, 14 Gennaio 2017 15:49

Sospensione dell’incredulità

C’è chi estroverso è incline a vivere la circostanza in semplicità e chi introverso la vive riflettendo, anche se di solito mischiamo i modi le due differenti tipologie umane esistono, ognuna con i suoi vantaggi e svantaggi. Ciascuna tipologia non è, di per sé, necessariamente più sana e valorosa dell’altra, dipende dalla fattispecie.

Un efficace strumento per indagare gli estroversi, mi sembra, il concetto semiotico della “sospensione dell’incredulità” (Samuel Taylor Coleridge, 1817), che adottiamo nel visionare film, teatro e opere artistiche di fantasia, romanzi inclusi. Nella sospensione dell'incredulità lo spettatore sceglie, più o meno consapevolmente, di inibire parte delle personali facoltà di pensiero - critiche, logiche e d’indagine - per godere senza riserve l’opera come vera anche se finta. C’è da osservare che la semiotica artistica può talvolta manifestare appieno la vita reale in quanto, se artefatto ben fatto, può restituire (attraverso la finzione) un elaborato extra genuino della realtà in forma condensata.

Siccome tale dinamica vale più per l’arte che per il vivere concreto, nell’indagare l’estroverso potrebbe rivelarsi utile espandere il concetto di sospensione dell’incredulità alla vita “reale” nella sua totalità. In fin dei conti l’estroversa assenza di riflessione che tutto semplicizza è una strategia esistenziale che tralasciando di indagare origine, motivi, scopi, cause e fine del vivere - incongruenze incluse: sofferenza, ingiustizia, morte - immagina di godere al meglio dell’opera. E’ un modo anche questo e nonostante le personali amputazioni non tra i peggiori. Saperlo è, però, meglio: talvolta l’estroverso realista può essere più allucinato del riflessivo.

Pubblicato in Filosofia di strada
Venerdì, 13 Gennaio 2017 09:36

Possibilità

Potrei constatare la natura nel suo ordinato procedere e fermarmi soddisfatto senza indagarne l’eventuale inizio, evitando di ipotizzarne un autore e un possibile motivo.

Non so se questo indagare sia un incidente di percorso e superflua sovrastruttura oppure movimento sano e legittimo.

Pubblicato in Filosofia di strada
Giovedì, 12 Gennaio 2017 16:35

Schizofasia gesuanica

Nel leggere di Augusto Cavadi «Tenerezza. Hanna Wolff e la rivoluzione (incompresa) di Gesù» Diogene Multimedia, convincente invito alla lettura della trilogia della teologa e psicoterapeuta Hanna Wolff sulla persona di Gesù di Nazareth, pur avendo letto l’intera opera sono stimolato a rileggerla per alcuni passaggi evidenziati da Augusto sui quali avevo frettolosamente glissato, altri snodi cruciali li avevo invece colti nei tre volumi, con un solo momento di disagio per una citazione della Wolff: «Io ritengo che Gesù di Nazaret sia stato il più felice uomo che sia vissuto».[1] Diffiderei di uno così, incapace di cogliere empaticamente l'imperversare della sofferenza intorno a lui.

Considero anche quanto sia difficile interpretare e comprendere i Vangeli, biografie di un tale Gesù, scritte più o meno un secolo dopo la sua esistenza storica. Quanto di autentico? Quanto di aggiunto? Come interpretare correttamente? Dato probabile è che i biografi ci abbiano messo del loro omettendo e aggiungendo, dato certo è che i lettori non siano da meno: secondo Marco, Matteo, Luca, Giovanni e… secondo il lettore: «e si divisero le sue vesti, tirandole a sorte per sapere quello che ciascuno dovesse prendere». Due esempi:

1 «Il solo Vangelo di Matteo parla 23 volte di tenebre, di fuoco eterno, di verme, di Geenna, di pianto e stridor di denti. Gesù era completamente dominato dall'idea dell'inferno. Altro che buona novella! La sua novella è la più spaventosa che mai sia stata annunciata all'uomo. Ma tutti se lo sono scordati. Si dice che Gesù era buono e caso mai è la Chiesa a essere cattiva. Sbagliato. Gesù era cattivissimo. (Luigi Lombardi Vallauri, intervista a l’“Espresso”).

2 «Se Gesù siede alla destra del Padre, Freud siede alla sua sinistra».
L’aforisma è dello psicoanalista Giacomo B. Contri. Cosi lo spiega:
«In un punto il pensiero di Freud - nel suo tendere al pensiero di natura - coincide con il pensiero di Cristo: per ambedue non si tratta di guadagnare Dio ma di guadagnare l’uomo, la logica detta “uomo”. Qui la parola “guadagno” traduce la parola salus in ogni significato. Un credente potrebbe obiettare che Freud non era religioso: certamente, ma neanche Cristo lo era.» (Giacomo B. Contri, «Una logica chiamata “uomo”»).

Certo Gesù di Nazareth era uno strano e biografi ci hanno messo del loro nel descriverlo, i traduttori pure e i lettori leggono e vedono a modo loro. Ma in tutto questo bailamme quello messo peggio sono io che in un mix di ecumenismo e serena dissociazione interna mi trovo in sintonia - con tenui distinguo, tipo Gesù stava alla larga dal sacro più che dal religioso -  con Gesù, con Cavadi, colla Wolff, con Vallauri e con Contri. Anche la versione di Pasolini non era male.

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1 Dorothee Solle, Phantasie und Gehoram, Stuttgart 1968, p. 61 (trad. it., Morcelliana Brescia 1970, p.75 – cit. Hanna Wolff, Gesù, la maschilità esemplare, Queriniana).

Pubblicato in Sacro&Profano
Mercoledì, 11 Gennaio 2017 12:43

Proferire l’indicibile

Andrà pur considerata e anche onorata la mistica, appurato che l’Io capace di argomentare logicamente è nella realtà universale evento, seppur straordinario, davvero parziale per dimensione, consistenza, struttura e durata.

Per frequentare il sacro evitando che ci divori, oltre alle vie della poesia, dell’arte e delle religioni, si potrebbe iniziare da Schopenhauer e Freud, per individuare negli immani, misteriosi e innominabili territori sacri, forze della natura che si autoperpetuano potenti e autonome fuori e dentro di noi: “Volontà” schopenhaueriana, pulsioni freudiane.

Vista la cieca indifferenza di tali forze nei confronti dell’uomo non so se si potrà realizzare una alleanza compiuta dell’Io col tutto, ma individuare tali potenze portandole dall’occulto al manifesto potrebbe rivelarsi un buon primo passo. A ben vedere non sono entità completamente orbe e indifferenti a noi: da dove veniamo se non da loro?

Pubblicato in Sacro&Profano
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