Strano. Davvero strano.
Per Spinoza la potenza eterna e infinita — Dio, o Natura — che fonda il mondo non ha coscienza, né intelletto né volontà. In effetti questi termini umani implicano una limitazione: se Dio sapesse d’essere, se pensasse o volesse qualcosa, sarebbe un essere tra altri, non la totalità stessa dell’essere. Se volesse qualcosa, se tendesse a un qualche fine sarebbe incompleto, sarebbe — tecnicamente — un deficiente.
Com’è allora che nei modi di Dio, cioè nelle cose finite, compaiono pensiero, coscienza, volontà? Com’è che l’uomo pensa, il gatto percepisce, la pianta si orienta alla luce — e Dio (quello di Spinoza) no?
Qui nasce un punto di grande attualità. Ciò che la scienza chiama emergenza — il sorgere di proprietà nuove da strutture complesse — sembra in parte rispondere a questo enigma. La mente emerge dal corpo, la coscienza dalla rete dei neuroni, la vita dalla materia.
Ma per Spinoza nulla “emerge” nel senso di nascere da ciò che prima non era. Non c’è creazione, né emanazione. Tutto ciò che esiste, esiste necessariamente e simultaneamente nell’infinita espressione della Sostanza (Dio). Qui il linguaggio ordinario arranca, perché le nostre parole sono intrinsecamente temporali: dire che qualcosa “è già contenuto” può suonare come se fosse presente in potenza, in attesa di attuarsi. Ma in Spinoza nulla attende: ogni cosa è, eternamente, nell’ordine stesso della realtà. Ciò che per noi accade nel tempo — l’apparire della mente, della coscienza, della vita — non è una nuova produzione dell’essere, ma la manifestazione temporale di una relazione eterna. La natura naturante — cioè la natura che fa esistere tutto, l’energia infinita che è all’origine di ogni cosa — non genera, non evolve, non “anticipa” nulla: accade in ogni istante nella sua interezza. Il “prima” e il “poi” sono solo la misura della nostra prospettiva parziale.
In questo senso, l’emergentismo — se letto come linguaggio descrittivo dei processi osservabili — non contraddice Spinoza: ci parla del modo in cui l’eterno si rende percepibile nella durata. Ma se si crede che qualcosa cominci davvero a essere, si fraintende l’essenza della necessità: la Sostanza non evolve, si esprime, sono i suoi modi che evolvono; la sua espressione non è successione ma simultaneità infinita.
Forse il nostro limite è pensare l’eternità come un tempo senza fine, invece che come assenza di durata — il continuo infinito presente in cui ogni cosa ha la sua ragione e il suo posto. Noi vediamo le cose nascere e morire, ma in Dio (natura) esse semplicemente sono: insieme, per sempre, nel medesimo atto dell’essere.
E non sono questioni di lana caprina. Indagare la sostanza, vedere il mondo sotto l'aspetto dell'eternità non è un lusso speculativo: fa vivere meglio. Allarga lo sguardo, risolve l'angoscia, ridimensiona l’io. Genera etiche meno antropocentriche, meno egocentriche — e perciò più armoniche, più serene.
Sarebbe bello poter arrestare per un istante la catena delle cause, per cogliere la causa prima che fa tutte le cose. Forse non troveremmo un’origine, ma un silenzio. Un qualcosa che assomiglia alla quiete: la stessa che i filosofi chiamano necessità e le sapienze d’Oriente chiamano vuoto.
In Spinoza questo vuoto non è mancanza, ma presenza assoluta: la Sostanza che non ha un fuori da cui venire, né un fine verso cui andare. Nel suo ordine eterno, la causa e l’effetto, il pieno e il vuoto coincidono senza confondersi. Ciò che per noi si svolge nel tempo — il pensiero, la vita, la coscienza — accade in lei come un unico respiro senza durata. Forse.