Quando mi imbattei in Spinoza, la tessitura del suo procedere mi era difficile e insieme misteriosamente nota.
Non so perché mi sentissi a mio agio nella sua ontologia blindata e deterministica: la Sostanza, gli attributi, i modi — un ordine di esseri necessari, in cui ogni cosa è ciò che è perché incardinata nella sostanza infinita che costituisce ogni cosa. Mi era familiare anche la sua etica non prescrittiva: non vincoli morali, ma descrizioni dell’essere, dove la libertà è conoscere l’ordine naturale che ci precede e ci costituisce.
Poi un’improvvisa chiarezza: l’ontologia spinoziana aveva analogie di metodo con l’ecclesiologia cattolica integralista che, peccato di gioventù, avevo frequentato da ragazzo. Spinoza e l’integralismo cattolico, opposti nel merito, rivelavano una somiglianza di forma, una grammatica contigua. In entrambe le concezioni, il porsi eterno e infinito di una potenza ordinata precede la libertà del singolo e la costituisce: il “bene” coincide con tale ordine, non con l’intenzione o la coscienza individuale.
Anche nelle ecclesiologie integraliste è così: l’ordine di ogni essere è dato da Dio, che istituisce differenze di potere e di ruolo all’interno della Chiesa. L’autorità non è una funzione, ma una forma d’essere. L’ordine sacramentale imprime un carattere indelebile che colloca il soggetto nel corpo ecclesiale come elemento strutturale, non contingente. La morale consiste nel conformarsi a questo ordine; la disobbedienza è disgregazione ontologica prima ancora che morale.
In Spinoza il rovesciamento dell'integralismo religioso è totale. L’uomo non è più grande del mondo che lo contiene; ogni gerarchia è azzerata, perché ogni essere umano è un modo di Dio. Eppure la forma logica resta paradossalmente simile: anche qui l’essere precede e fonda ogni dover-essere; la realtà è una necessità ontologica, non un campo di decisioni morali. La virtù è la conoscenza adeguata della propria essenza nella totalità del tutto.
Questa improvvisa chiarezza mi ha ricordato Hans Jonas che, studiando lo gnosticismo, notò una contiguità formale con l’esistenzialismo moderno. Si accorse che entrambi nascono dall’esperienza di estraneità al mondo: per lo gnostico, il cosmo è opera di un demiurgo ignorante o malvagio; per l’esistenzialista, è il luogo dell’angoscia e dell’abbandono. Le radici metafisiche divergono, ma la forma dell’esperienza — un mondo percepito come estraneo — è sorprendentemente simile.
Scoprendo ciò, ho capito che certe concezioni ecclesiologiche che avevo introiettato erano rimaste in me come una polvere sottile: non la vedevo, ma c’era. Quando incontrai Spinoza, il suo ordine limpido e coerente mi diede un senso di sollievo, come se una nostalgia segreta avesse trovato forma.
Il pensiero non è solo ciò che pensiamo, ma anche ciò che ci abita: eredità carsiche, morfologie concettuali, risonanze di struttura. Forse, talvolta, l’attrazione o la repulsione verso un autore nasce non dal contenuto, ma dalla somiglianza di forma interiore. È un bel problema: ogni pensiero profondo è anche una risposta affettiva alla forma dell’essere? Sto facendo metafilosofia o psicologia? Non lo so. Ma so che pensare bene richiede anche questo: riconoscere, per quanto possibile, le strutture segrete che ci abitano.