Molti rimproverano a Spinoza di aver costruito un sistema troppo “inumano”: se tutto segue con necessità dalla sostanza divina (ossia la natura), che spazio rimane per la persona, per la responsabilità, per l’imputabilità morale? Non rischia di dissolversi l’io stesso, ridotto a un semplice punto in un meccanismo impersonale?
Il rimprovero è solido e ragionevole. Non sorprende che Spinoza sia stato criticato con forza: Bayle lo accusava di distruggere la morale, poiché senza libertà di scelta non c’è responsabilità. Leibniz lo definiva un fatalista incapace di rendere conto del bene e del male. Jacobi vedeva in lui un pensiero “amoralista”, che annulla il soggetto personale.
Eppure, credo che la chiave per sciogliere il nodo sia distinguere due livelli di comprensione:
Il livello umano (relativo): noi non potremmo vivere senza essere qualcuno. Esiste un io consapevole, che pensa, sceglie, agisce e risponde delle proprie azioni. Sul piano dell’esperienza quotidiana e dell’etica, l’io è reale e imprescindibile.
Il livello assoluto (sub specie aeternitatis): nella prospettiva della sostanza (Dio, natura), non vi è un io sostanziale. Ogni persona è un modo finito, circoscritto, attraverso cui la necessità infinita si esprime. In questa dimensione, parlare di imputabilità ultima non ha senso: c’è solo l’infinito intreccio delle cause.
Come nella fisica moderna convivono due differenti leggi del reale — quella classica a livello macroscopico e quella quantistica a livello microscopico — così in Spinoza vi sono due prospettive non contraddittorie: al livello umano l’io personale è operante e responsabile; al livello assoluto quell’io non ha consistenza propria. Entrambe le descrizioni sono vere, ma in ordini diversi.
Spinoza rispondeva a queste obiezioni non attenuando il determinismo del suo sistema, ma radicalizzandolo: proponeva infatti un concetto di libertà diverso e controintuitivo. La libertà non consiste nella possibilità di scegliere arbitrariamente, ma nella comprensione della necessità. Quanto più la mente riconosce le cause che la determinano, tanto più diventa attiva, meno schiava delle passioni e più capace di agire secondo la propria natura. La vera libertà, dunque, non si oppone al determinismo: coincide con la piena consapevolezza di esso.
Questa intuizione può maturare attraverso il ragionamento filosofico, ma anche empiricamente, quando facciamo un bilancio sincero della nostra vita o quando eventi radicali — quelle situazioni limite, di cui parlava Jaspers, come una malattia grave o la morte di una persona cara — ci costringono a misurarci con i nostri limiti. In quei momenti, al di là della confusione e delle reazioni immediate, può affiorare in noi un sentire limpido e inatteso che dice: “va bene così”. È lì che tocchiamo la libertà.
Forse la difficoltà maggiore, allora, non è logica ma esistenziale: accettare che il nostro io, così prezioso per noi, non abbia sussistenza assoluta. Probabilmente il rifiuto del determinismo spinoziano nasce proprio da qui: dal non voler ammettere la nostra insussistenza ontologica. Eppure, in questa prospettiva, l’io non viene annullato, ma restituito al suo giusto posto: non assoluto, bensì relativo e provvisorio. Non sostanza, ma modo. Non illusione, ma riflesso in cui l’infinita necessità si rispecchia nella coscienza finita.