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Venerdì, 29 Agosto 2025 14:34

Va bene così

Scritto da 
Cacciatori nella neve- dettaglio, Pieter Bruegel il Vecchio Cacciatori nella neve- dettaglio, Pieter Bruegel il Vecchio

Molti rimproverano a Spinoza di aver costruito un sistema troppo “inumano”: se tutto segue con necessità dalla sostanza divina (ossia la natura), che spazio rimane per la persona, per la responsabilità, per l’imputabilità morale? Non rischia di dissolversi l’io stesso, ridotto a un semplice punto in un meccanismo impersonale?

Il rimprovero è solido e ragionevole. Non sorprende che Spinoza sia stato criticato con forza: Bayle lo accusava di distruggere la morale, poiché senza libertà di scelta non c’è responsabilità. Leibniz lo definiva un fatalista incapace di rendere conto del bene e del male. Jacobi vedeva in lui un pensiero “amoralista”, che annulla il soggetto personale.

Eppure, credo che la chiave per sciogliere il nodo sia distinguere due livelli di comprensione:
Il livello umano (relativo): noi non potremmo vivere senza essere qualcuno. Esiste un io consapevole, che pensa, sceglie, agisce e risponde delle proprie azioni. Sul piano dell’esperienza quotidiana e dell’etica, l’io è reale e imprescindibile.
Il livello assoluto (sub specie aeternitatis): nella prospettiva della sostanza (Dio, natura), non vi è un io sostanziale. Ogni persona è un modo finito, circoscritto, attraverso cui la necessità infinita si esprime. In questa dimensione, parlare di imputabilità ultima non ha senso: c’è solo l’infinito intreccio delle cause.

Come nella fisica moderna convivono due differenti leggi del reale — quella classica a livello macroscopico e quella quantistica a livello microscopico — così in Spinoza vi sono due prospettive non contraddittorie: al livello umano l’io personale è operante e responsabile; al livello assoluto quell’io non ha consistenza propria. Entrambe le descrizioni sono vere, ma in ordini diversi.

Spinoza rispondeva a queste obiezioni non attenuando il determinismo del suo sistema, ma radicalizzandolo: proponeva infatti un concetto di libertà diverso e controintuitivo. La libertà non consiste nella possibilità di scegliere arbitrariamente, ma nella comprensione della necessità. Quanto più la mente riconosce le cause che la determinano, tanto più diventa attiva, meno schiava delle passioni e più capace di agire secondo la propria natura. La vera libertà, dunque, non si oppone al determinismo: coincide con la piena consapevolezza di esso.

Questa intuizione può maturare attraverso il ragionamento filosofico, ma anche empiricamente, quando facciamo un bilancio sincero della nostra vita o quando eventi radicali — quelle situazioni limite, di cui parlava Jaspers, come una malattia grave o la morte di una persona cara — ci costringono a misurarci con i nostri limiti. In quei momenti, al di là della confusione e delle reazioni immediate, può affiorare in noi un sentire limpido e inatteso che dice: “va bene così”. È lì che tocchiamo la libertà.

Forse la difficoltà maggiore, allora, non è logica ma esistenziale: accettare che il nostro io, così prezioso per noi, non abbia sussistenza assoluta. Probabilmente il rifiuto del determinismo spinoziano nasce proprio da qui: dal non voler ammettere la nostra insussistenza ontologica. Eppure, in questa prospettiva, l’io non viene annullato, ma restituito al suo giusto posto: non assoluto, bensì relativo e provvisorio. Non sostanza, ma modo. Non illusione, ma riflesso in cui l’infinita necessità si rispecchia nella coscienza finita.

Ultima modifica il Venerdì, 29 Agosto 2025 14:45

3 commenti

  • Link al commento Bruno Vergani Sabato, 30 Agosto 2025 12:57 inviato da Bruno Vergani

    Ho ricevuto questo commento da parte di Salvatore Porrovecchio. Le sue riflessioni nascono da una lunga esperienza di medico e si intrecciano con il vissuto della fragilità umana. Mi sembra un contributo prezioso perché mostra come il pensiero filosofico, quando è assunto con sincerità, possa illuminare la vita concreta.

    Caro Bruno Vergani
    ho letto con attenzione e piacere il tuo scritto su Spinoza, e mi ha colpito la chiarezza con cui metti in relazione il determinismo spinoziano con il nostro vissuto quotidiano. Mi permetto di aggiungere alcune riflessioni che nascono dalla mia esperienza di medico anziano e dall’incontro, spesso inevitabile, con la fragilità umana.
    L’idea di Spinoza che tutto accada per necessità — che nulla potrebbe essere diverso da ciò che è — trova un’eco particolare nella pratica clinica, soprattutto quando ci confrontiamo con malattie croniche, degenerative o terminali. In quei momenti, la presunta sovranità del nostro io, così cara alla modernità cartesiana, si mostra per quello che è: un costrutto parziale, una funzione utile ma non assoluta.
    Eppure, non possiamo ridurre l’esperienza umana a un puro meccanismo biologico o cosmico. Come ben dici, esistono due piani che coesistono:
    - Il piano relativo, quello dell’io che sente, soffre, sceglie, ama, si ribella. Qui l’etica, la responsabilità e persino la colpa hanno un senso imprescindibile.
    - Il piano assoluto, quello che Spinoza chiama sub specie aeternitatis, in cui le nostre identità individuali si dissolvono nel flusso infinito delle cause. Qui, la parola “colpa” perde significato: tutto ciò che accade è, semplicemente, necessario.
    Nella mia esperienza con i pazienti, ho spesso notato che la consapevolezza di questa “doppia verità” può avere un effetto liberatorio. Quando una persona comprende — e non solo intellettualmente, ma emotivamente — che gran parte della sua vita è intrecciata con catene causali che la trascendono, a volte si apre uno spazio nuovo di serenità. È paradossale: accettare la propria non-libertà assoluta può generare una libertà più profonda.
    Jaspers, che tu giustamente citi, parla delle situazioni-limite — malattia, dolore, morte — come momenti in cui il velo dell’illusione cade. In quei frangenti, la persona spesso si trova di fronte a una scelta esistenziale: ribellarsi disperatamente al proprio destino o lasciarsi attraversare da esso, riconoscendone la necessità. È proprio lì che, talvolta, emerge quel “va bene così” di cui parli: non come rassegnazione passiva, ma come comprensione profonda di essere parte di un ordine più grande.
    In fondo, Spinoza non ci invita a negare l’io, ma a ridimensionarlo: non assoluto, non eterno, ma reale nel suo ambito. Per un medico — e forse per ogni essere umano che si confronta con la vulnerabilità — questa visione non è astratta. Ogni diagnosi infausta, ogni prognosi incerta, ogni remissione insperata ci ricordano che viviamo sospesi tra la responsabilità personale e la necessità cosmica.
    Forse, come suggerisci, la resistenza maggiore al pensiero spinoziano nasce dalla paura di perdere consistenza, di dissolverci nell’infinito. Ma accettare questa prospettiva può trasformarsi in un atto di riconciliazione: con noi stessi, con il nostro destino, con la vita che ci attraversa. Non si tratta di annullare l’io, ma di riconoscerlo come un’onda dentro l’oceano.
    In questo senso, dire “sì” alla necessità non è rinunciare alla nostra dignità, ma al contrario, abbracciarla in un orizzonte più vasto. Forse è proprio lì che Spinoza diventa sorprendentemente “umano”: non perché ci restituisce l’illusione del controllo, ma perché ci insegna a riconoscere la nostra finitudine senza disperazione.
    Un caro saluto.

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  • Link al commento Maria Lunedì, 01 Settembre 2025 05:55 inviato da Maria

    Illuminanti le tue riflessioni e altrettante preziose quelle di Salvatore. Grazie.

    Rapporto
  • Link al commento Daniela Moscardini Lunedì, 01 Settembre 2025 07:35 inviato da Daniela Moscardini

    Bruno Vergani, chapeau per le deduzioni e la maniera di esprimerle!
    Salvatore Porrovecchio, Complimenti anche a lei. Più facile a dirsi che a farsi., la sua considerazione. Vorrei averla conosciuta nella condizione di medico ma comprendo che il tempo. l'esperienza e la persona, non essendo tutti uguali, abbiano fatto la differenza. Comunque il pensiero, di enorme pregio, lascia traccia.
    Saluti a tutti.

    Daniela

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