Alle ultime elezioni politiche avevo a stento onorato il «dovere civico»: passando in rassegna i partiti non mi percepivo rappresentato. Condividevo alcuni punti del M5S, ma subodorando nel moVimento clericalismo non l’avevo votato; mi piacevano alcune visioni sociali di SEL, ma avendo seguito da vicino le vicende dell’Ilva di Taranto e le connesse ambiguità di Vendola avevo lasciato perdere; il voto per Ingroia, Giannino e i Radicali li avevo stimati poco “utili”. Fin qui qualcosa l’avevo azzeccata ma l’errore era in agguato e ho sbagliato, sbagliato di brutto:
giudicando PDL e la Lega come il peggior male per il Paese cercavo, nella rosa degli altri partiti, chi potesse depotenziarli almeno un po’. Mi rimaneva il PD con le sue precise, anche se “sul campo” contraddittorie, promesse antiberlusconiane, così tra il non votare e il votare avevo optato per il voto al PD sostenendo, poi così e mio malgrado, proprio chi avrei voluto spazzare via.
La faccenda contiene aspetti comici in quanto miei “amici” pidiellini come Formigoni (leggi qui i dettagli dell’amicizia) sono lì a governare, blindati a oltranza da Napolitano anche grazie al mio sostegno al PD.
Considerando l’impotenza del mio voto nel determinare la coalizione tra partiti perché elaborata, scelta, blindata, dal Presidente della Repubblica inopinatamente e a prescindere; valutando la debolezza del voto di chicchessia a causa dei diktat economici della Comunità europea sull’Italia; stimando le imposizioni economiche-militari degli Stati Uniti sulla democrazia nostrana, la prossima volta – se l’offerta partitica sarà la medesima - sosterrò a ragion veduta il «dovere di non votare». Astensione consapevole e legittima. Ritengo di averne ampia e motivata ragione. Nulla cambierà in conseguenza del mio voto o non voto ma ne guadagnerò, perlomeno, in personale potenza. Valiamo di più del due di picche.