BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Sabato, 30 Aprile 2016 22:16

Io Iddio

“Una filosofia in pratica d’a-Mare”: terza edizione del festival della filosofia a Castellammare del Golfo. “Che significa, oggi, essere ‘a sinistra’ ?” Dibattito fra Diego Fusaro e Orlando Franceschelli ha introdotto e moderato Augusto Cavadi.

Delle numerose tematiche poste, nelle oltre due ore di dialogo Franceschelli - Fusaro di questo pomeriggio, mi sembra che una sia stata cruciale:

quando Franceschelli con taglio autobiografico ha illustrato il suo distanziarsi dalle posizioni antropocentriche di Marx, senza per questo rinnegarlo in toto, per giungere al disincanto e alla saggezza del naturalismo (antropologia cosmocentrica, ecoappartenenza), Fusaro non interagisce filosoficamente e risponde indenne enunciando, ma non dimostrando, l'Oggetto come mai posto dalla natura, o da chicchessia, ma esistente - nel solco dell'idealismo tedesco - grazie, sempre e solo, alla mediazione dell'umano (Io).

Non posso escludere che tra le numerose sollecitazioni l'articolato passaggio di Franceschelli sia, seppur portante, semplicemente sfuggito a Fusaro, comunque sia peccato non sia stato dialogicamente sul pezzo.

 

 

Pubblicato in Filosofia di strada
Sabato, 30 Aprile 2016 13:38

L'inorganico

Ci avevo provato a raggiungere il silenzio perfetto, niente da fare il ciottolo ha fatto di meglio.

Pubblicato in Pensieri Improvvisi
Sabato, 30 Aprile 2016 13:16

Dolorismo

Per qualcuno potrebbe risultare più tollerabile, addirittura proficua, un'autoflagellazione dentro una qualche narrazione escatologica consolatoria, che un accidente da ignoto autore che lo colga a capocchia tra capo e collo.

Pubblicato in Sacro&Profano
Mercoledì, 27 Aprile 2016 11:39

Colpo di rimbalzo

In Puglia si conversa assai così nell’ascoltare i miei clienti in erboristeria constato che più uno è malriuscito (categoria umana classificata da Nietzsche) più vede malriuscito il mondo, più ha spirito creativo più lo vede dinamico, e così via. Dimostrazione empirica che “il mondo è una mia rappresentazione” (Schopenhauer), sia perché vediamo la realtà da un punto di vista soggettivo - mica l’occhio è onnipervadente, ma senza potersi vedere osserva ciò che lo circonda partendo da un punto univoco guardando, dunque, le cose da una precisa angolazione -, ma ancor di più perché consapevolmente  o inconsapevolmente - la psicoanalisi sentenzia inconsapevolmente - proiettiamo parti di noi sulla realtà; se davvero così per ben interpretarla sarebbe necessario individuare gli occulti personali fattori che le spariamo addosso distorcendola.

Tutti in analisi? Non so ma da quelle parti un qualche modo bisognerà pur inventarlo.

Pubblicato in Filosofia di strada

Milano, processo Maugeri. Nelle prossime settimane, dopo le parti civili, interverrà la difesa per smontare le conclusioni dei pubblici ministeri che vedono Roberto Formigoni «capo e promotore di una associazione a delinquere» costituita da «corrotti e corruttori» dediti a «corruzione sistemica gravissima» meritevole, sempre per i pm, di condanna a 9 anni di carcere. Premature, dunque, oltre che inopportune eventuali valutazioni d’innocenza o di colpevolezza: sentenzierà il tribunale a conclusione dell’iter processuale - giudizio di primo grado non definitivo. Nondimeno i due anni di processo già svolti che, forse con una punta di masochismo, ho seguito su Radio Radicale - le telecamere non sono ammesse -; processo che vede rinviati a giudizio, tra gli altri, ciellini e memores per gravissimi reati corruttivi e/o di associazione per delinquere, autorizza fin da subito ad interrogarsi sullo scostamento etico, prima che giuridico, tra gli ideali di promozione umana annunciati da CL e le gravissime accuse dei magistrati inquirenti rivolte ad un pezzo importante del Movimento ecclesiale. Com’è possibile che una parte così significativa di una comunità cristiana sia rinviata a giudizio per associazione a delinquere? Come può accadere che “alti” ideali sociali si declinino, nel caso di specie, in una sospetta associazione criminale? Macroscopici errori degli inquirenti, oppure ciellini imputati schegge impazzite? Dell’acclarata e grave circostanza di un presidente di regione che trascorreva vacanze di lusso con amici ciellini e memores pagate da soggetto, pure lui del milieu di CL, che percepiva abnormi rimborsi da strutture sanitarie private che, a loro volta, ottenevano rimborsi dalla Regione della quale proprio l’ospite non pagante era presidente, Comunione e Liberazione tace e il direttivo dei memores glissa. Io provo a dire, ripetendomi, autorizzato dal fatto che anni fa ero uno di loro. Dico individuando il mandante etico nel pensiero di don Giussani, nella sua concezione patriarcale e tribale del cattolicesimo, nella sua pedagogia irruente, primitiva, patologizzante. Mandante preciso seppur inconsapevole e in buona fede:

 «Se non c’è risposta a quel che sei, sei un disgraziato! […] Immaginate di andare in piazza Duomo a Milano alle sei di sera, d’estate, o in primavera, o d’autunno, d’autunno presto. Piazza Duomo è quasi piena, gente che va di qui, gente che va di là; ma osservate che c’è qualcosa che non va: sono tutti senza testa! Immaginate di essere lì: sono tutti senza testa, solo voi avete la testa! La vita è così, il mondo è così». (Conversazione di Giussani ad un gruppo di memores domini 1 ottobre 1995). «Quando ci si mette insieme, perché lo facciamo? Per strappare agli amici – e se fosse possibile a tutto il mondo – il nulla in cui ogni uomo si trova». (Incipit del messaggio di Giussani per il XXV Pellegrinaggio a Loreto). «Amici miei, che compito, che responsabilità! Perché gli altri nel mondo dipendono dalla nostra vita.» (Giussani ritiro di memores domini).

Riguardo il merito di tali asserzioni evito il giudizio derivante dal preciso ricordo della mia remota obbedienza, all'interno dei memores domini come a Cristo in terra a tale Perego, per il quale i pm chiedono 5 anni di carcere, olocausto provinciale affatto scevro di mia personale imputabilità seppur peccato di gioventù, implementato da Giussani con l’intento di universalizzarlo.

Giussani allargava smisurato, urgente, irresistibile, impellente e a oltranza, il personale giudizio di valore a asserzione di realtà universale costipando, come uno schiacciasassi, ciò che incontrava in tale prospettiva. Alcuni a lui prossimi, non curanti dei contenuti veicolati in tanta foga, ne hanno appreso meramente il metodo sostituendo con fini propri il merito. Fatto ("Avvenimento") e patto (unitario) etimologicamente poggiano sull’atto (āctus), ma l’atto non determina né garantisce, di per sé, il sano ordinamento personale: religionari e gangster, in missione per conto di un qualche dio, pur dissimili nei fini possono anche somigliarsi nella determinazione per raggiungerli.
Una vera e propria deriva assiologica tribale in quanto 
la comunione tra gli appartenenti a Comunione e Liberazione era definita da Giussani con l’affermazione: «Io sono Tu che mi fai», con quel “Tu” intendeva Dio e nel contempo, riferendosi al mistero dell’incarnazione cristiana, ogni aderente al gruppo. In questa concezione il nome di ogni ciellino è ritenuto sacramentalmente unificato all’origine con quelli degli aderenti al gruppo. Comunità giudicata da Giussani incontro-avvenimento-presenza salvifica segno sacramentale di Dio stesso, “ontologicamente” - da intendersi non tanto come criterio di pensiero che inventaria le cose ma, con accezione esistenziale, che le fa essere - costitutiva l’“Io” di ogni singolo componente. Il singolo uomo è in sé insignificante, è nulla. Per essere deve diventare cellula appartenente e obbediente alla corporazione, come le api e le formiche sono nulla senza il loro gruppo organizzato, consorziato, congregato, endogamo. Anzi di più: attraverso un processo d’ipostatizzazione del gruppo a verità assoluta e universale per l’appartenente la dipendenza diventa incondizionata ed esistenzialmente totalizzante, “ontologica” come i buchi nel formaggio che fuori da lì non esistono più. Nella concezione assiologica giussaniana la morale non poggia, dunque, sul comportamento umano in rapporto all'idea condivisa che si ha del bene e del male relata all'imputabilità del soggetto - concezione bollata da Giussani moralistica -, ma su una singolare teoria etico-assiologica di appartenenza al gruppo sacramentale: più fai parte più sei nel giusto, più fai parte e più vali, più appartieni e più sei redento, prescindendo dal personale agire. Giudizio di valore dove ogni nome è fuso e confuso nell'incorporazione al gruppo; un “Noi” Alfa e Omega super-Ente, consorteria metafisica salvifica, corpo mistico coincidente la presenza di Dio nella storia e strutturante-giustificante alla radice ogni partecipante al gruppo. All'interno di questo entusiamo collettivo (enthusiasmòs: "indiamento"), di acrisia a tale presupposto sacro fondamento unitario che redime, di questo imperativo collegiale, di questo familismo su base religiosa, di questo provinciale noi totalitario-salvifico, l’operato dei membri evidentemente obbedisce - indifferente alle generali e universali misure e norme dell'umano diritto costituite, istituite, e socialmente condivise - a regole proprie, sia in versione tracotante come per gli imputati in oggetto, che frugale come per numerosi altri ciellini e memores: vetture versione sportiva coupé o giardinetta, entrambe con la stessa, suesposta, giussaniana motorizzazione.

Pubblicato in Attualità
Sabato, 23 Aprile 2016 08:24

Autobiografia incipit e un po' ancora

Torno al primo ricordo, nell’osservare il fuoco di una stufa percepivo di esistere. Fuoco d’essere sorto spontaneo non so da dove, non conosco il perché, non so come. Senso di essere che è ancora qui immutato.
E’ l’unico capitale che ho. E' l'unico problema che ho.

Seduto sul seggiolone davanti al tavolo, sul quale mi avevano poi riferito ero nato, ricordo seduti davanti a me mio padre e mia madre, alla destra un amico di mio padre con la faccia da can Bulldog. La madre era potente, il padre un accessorio gradito.
La sera nel dormiveglia avevo visioni della “Nonna Ida” una vecchietta vicina di casa, la immaginavo volare dalla finestra per entrare nel mio lettino, avevo due, forse tre, anni.
La nonna vera quella paterna abitava lì vicino, nello stesso paese, Seregno in Brianza, un posto grigio senza carattere trenta chilometri sopra Milano. Da lì verso nord la pianura era interrotta dalle colline, poi i laghi e le Prealpi.
Suo marito il nonno Umberto era alto, imponente, ex campione di ciclismo, alpino della grande guerra, labbro inferiore sporgente. Molto sporgente. Importava legnami dalla Iugoslavia che vendeva ai falegnami della zona, ricordo il profumo del faggio.
“Mangiare bere e lavorare; prima lavorare poi mangiare e bere” era il suo motto. Il nonno era diventato socialista dopo aver preso uno scappellotto da uno squadrista, perché non si era tolto il cappello e non aveva salutato a braccio teso un gerarca fascista che passava dalle sue parti. Il prognatismo ce l’avevo anch’io, quasi impercettibile ma l’avevo. A volte lo amplificavo spingendo il labbro inferiore all’infuori: l’evocare corporalmente il nonno Umberto mi procurava un senso di stabilità, di forza.
Ogni primavera si approvvigionava di vino dal produttore di fiducia, il camion dell’azienda quello che portava le tavole ai falegnami brianzoli, partiva per la Toscana dove caricava sessanta damigiane di Chianti che terminavano entro la primavera successiva, ma non avevo mai visto il nonno Umberto ubriaco; come un monaco obbediva ad una regola che spesso ripeteva ad alta voce: “Mai bere in solitudine ma in compagnia, mai lontano dai pasti, mai superalcolici.” Era morto ad ottantuno anni cadendo dalla scala che portava in  cantina, si era rotto la testa ma era così forte che ci aveva messo più di un mese a lasciarci. Le sue ultime parole erano state apprezzamenti ad un’avvenente infermiera dell’ospedale; gli avevano staccato i tubi e caricato su un’autoambulanza per portarlo a casa, perché nel reparto di rianimazione necessitavano di posti letto. Era morto nel tragitto, l’avevano scaricato cadavere, la faccia era nivea, non era più il nonno Umberto ma un sacco vuoto. Vuoto di cosa? Cos’era quel quid che prima era dentro quel corpo e poi non c’era più?

Boschetti di robinie, lucertole, grilli, bande con le fionde. A cinque anni ero basso di statura e magrissimo, non mi piaceva tirare sassi ai nemici preferivo fare lo stregone. Avevo un paio di assistenti, il più capace l’avevo soprannominato “Ciulino”, l’avevo scelto perché catturava orbettini, piccole serpi lisce e quasi cieche, che infilava nel naso per farle uscire dalla bocca. Inseriva la testa dell’orbettino nella narice, rapido il rettile penetrava l’orifizio equivocandolo per tana, Ciulino spalancava la bocca, si ficcava l’indice e il pollice in gola, faceva una specie di gargarismo, afferrava da dentro la gola la testa della biscia e tirava. Diceva con voce nasale: “C’è, c’è”. Ammiravo la coda della biscia scomparire dentro il naso di Ciulino mentre la testa usciva dalla bocca. Io mi limitavo a mangiare qualche zampa di cavalletta e formiche.
Quando la banda catturava un nemico ordinavo agli assistenti di tenerlo fermo, così potevo pungerlo con le ortiche e poi impiastrarlo con l’intruglio d’acetosella; mi dava soddisfazione vedere il corpo del prigioniero diventare verde, un piacere intimo di una qualità precisa. Quel piacere era la bussola, la vocazione: vivere quello che mi piaceva. Le montagne là in fondo mi ammonivano che, anche se capace di far verdi i nemici, non ero Dio. Lui era a nord sulle montagne da lì faceva arrivare il vento.

Pubblicato in Frammenti Autobiografici
Sabato, 16 Aprile 2016 17:43

Borderline

La suorina cattolica originaria di Vishakapatnam, Andhra Pradesh, India, passa davanti alla palestra di Roma trasformata in ashram, dentro un gruppo di romani pendono dalle labbra di un suo compaesano che gli spiega la vita.

Esterofilie: labile il confine tra fruttuose contaminazioni e subculturali impantanamenti.

Pubblicato in Pensieri Improvvisi
Sabato, 16 Aprile 2016 08:51

Male

Nella giurisprudenza la crudeltà di un delitto è di norma valutata aggravante invece di movente, eppure ricordo un serial killer di prostitute che riferiva d’averlo fatto perché gli piaceva vederle morire. Tutto qui, nient’altro[1].

Anche questo è l’uomo, dunque mi riguarda[2]. Forze ancestrali che ci appartengono da individuare invece di rimuovere non di rado sublimandole in altezze indicibili.

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1 Ma altra cosa è il pensiero, altra cosa l'atto, ed altra l'immagine dell'atto. La ruota della causalità non gira tra di esse. Un'immagine rese pallido quell'uomo. Egli era degno della sua azione allorché la commise: ma non ne sopportò l'immagine allorché l'ebbe compiuta. Rivide sempre sé stesso quale autore d'un fatto. Io chiamo questo follia; l'eccezione divenne natura.
Una linea paralizza la gallina: il colpo da lui eseguito paralizzò la sua povera ragione – io chiamo ciò follie dopo l'atto. Udite, o giudici! Vi è ancora un'altra follia: è quella Prima dell'atto. Ah, voi non penetraste a fondo in quell'anima!
Così parlò il rosso giudice: «Perché questo delinquente ha ucciso? Voleva rubare». Ma io vi dico: la sua anima era assetata di sangue, non di rapine: egli aveva sete della voluttà del coltello. Ma la sua ragione non comprendeva una tale follia e lo persuase. «Che importa il sangue? disse; non vuoi tu almeno, in questo momento, rubare? O fare vendetta?».
Ed egli ascoltò la sua povera ragione: le sue parole pesavano su di lui come piombo – e allora rubò mentre uccideva. Egli non voleva vergognarsi della sua follia. (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Del pallido delinquente.)

Homo sum, humani nihil a me alienum puto «sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano». (Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos.)

Pubblicato in Filosofia di strada
Mercoledì, 13 Aprile 2016 10:23

Ma io vi dico

Se leggessi sempre e solo La Gazzetta dello Sport avrei evitato che al risveglio mi tornasse a rodermi quell’annotazione - nota che nei libri letti di recente non sono riuscito a ritrovare - nella quale si affermava che la qualifica di profeta riferita a Gesù Cristo è da considerarsi erronea. La nota affermava che Gesù, specialmente nel rapporto dialettico con i rabbini del tempo, a differenza dei profeti pensava-diceva-agiva, tutto “in proprio”, ben poggiato su sé stesso.

La faccenda mi era parsa attraente perché possibile indicazione di quanto Gesù fosse, al pari di noi, proprio uomo e pure ragionevole, che evitando di andare in trance invasato dall’Assoluto -“Oracolo del Signore” - rispondeva razionalmente e in proprio. Ho chiesto delucidazioni ad Augusto Cavadi che mi ha spiegato trattasi di concezione teologica tipica dell’apologetica tradizionale, pertanto esattamente agli antipodi dal sentiero che intendevo imboccare e proseguire. Per tale esegesi il “Ma io vi dico”, espresso con autorità e in prima persona, sarebbe sì prova che Gesù non fosse profeta ma - in opposizione alla mia ipotesi - neppure uomo, viceversa diretta “epifania”, “incarnazione”, di Dio. Siamo nel noto ginepraio: tutto sta nell’interpretare quell’Io.

Pubblicato in Sacro&Profano
Martedì, 12 Aprile 2016 08:04

Tra il dire e il fare c’è di mezzo…

Arrivando in orario non si perde il treno e sostituendo la guarnizione usurata il rubinetto non perde più: questo è eseguire.

Riguardo invece all'operare risulta difficoltoso, forse impossibile, individuare il confine preciso dove il pensiero diventa azione, l’idea prassi, il teoretico biografia e la parola accadimento fattivo.

Processi integrati e compenetrati, anzi processo unico.

Pubblicato in Filosofia di strada
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