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Alessandra Piccinini commenta il post con la seguente considerazione:
«Caro Bruno,
io mi sono sempre chiesta (anche se troppo tardi), come mai don Giussani, che ha fatto dell'obbedienza all'autorità il punto cardine della sua "predicazione", non abbia lui per primo obbedito all'autorità della sua Chiesa ma se ne sia in parte discostato creando lui in prima persona la sua piccola (poi mica tanto) "sottochiesa" inizialmente guardata con sospetto dalla sua madre millenaria. A volte ripensando a me adolescente ciellina mi sento un po' vittima inconsapevole della sua irrimediabile incoerenza.»

Cara Alessandra premetto che quando i presupposti di affidabilità, dopo verifica sul campo, hanno avuto esito negativo (ex), è comunque conveniente emanciparsi da presunzioni di inintenzionalità personale, da visioni di sorte avversa e da vittimismi per accettare, invece e finalmente, una imputabilità personale. E' da qui, non dalle querimonie, che inizia ogni libertà.
Nel merito osservo, concordando con quanto scrivi, che significato e prassi dell'obbedienza alla e nella "Compagnia sacramentale" di CL sono espressi da Giussani su due binari: all’interno del gruppo l'obbedienza è regolarmente intesa totale, assoluta, pragmatica, diretta e precisissima: autorità cielline anfibi terro-celesti con una zampa nella finitudine e l’altra nell’eterno, uomini che per processo “analogico” (analogia entis) rappresentano Iddio stesso per i subalterni: «Mai possiamo aderire di più alla misericordia di Dio che nell’ubbedire alle persone, alle pietre dove Dio ci ha collocati», struttura gerarchica dove l'appartenente alla comunità obbedisce ad univoco superiore, sacra autorità concatenata al sottoposto per diretta prossimità, capo che all'interno del gruppo a sua volta obbedisce, senza deviazioni, ad un suo superiore. Nel rapporto di CL nei confronti del Magistero il coincidere dell'autorità Istituzione-Cristo tende invece a stemperarsi e a chi indicava l’autentificazione della autorità ecclesiastica come segno e garanzia di verità per CL, Giussani replicava: «Non sono d’accordo […] perché uno in coscienza deve essere perfettamente certo, anche se la Chiesa non si è ancora pronunciata. Perché quando la Chiesa si pronuncia su una cosa… obbedisco. E lì cessa il mio carisma.» Emerge, dunque, una analogia con Cristo autoreferenziale - e francamente un po’ esaltata - che nel guidare esige obbedienza, ma nell’essere guidato reclama autonomia. Ritornando alla concezione giussaniana di dipendenza all'interno di CL - “Dipendenza” è parola tipicamente giussaniana -, va precisato che al dipendente è chiesto di fare proprie le ragioni dell’autorità, individuando e accogliendo l'informazione di fondo che esprime il "Superiore" per farla diventare intimamente propria sentendone il valore, in quanto l’autorità è ritenuta Cristo presente, individuo di per sé effimero eppure veicolante l'Assoluto. Per il subalterno urge, dunque, che indifferente al grado di sensibilità, onestà e verità del Superiore, lo interiorizzi per presupposta sacramentalità da lui espressa e significata. Un processo di infantilizzazione evidentemente devastante.